Manglehorn
Angelo Manglehorn (Al Pacino) ha una piccola bottega in una città della provincia americana e fabbrica chiavi. Vive da solo con il suo gatto, ha un rapporto conflittuale con il figlio che vede sporadicamente (Chris Messina) e insegue di continuo il ricordo della donna di cui è ancora innamorato. Un’ossessione, quest’ultima, che condizionerà anche i nuovi rapporti, in primis quello che inizia a stringere con una donna curiosa ed entusiasta (Holly Hunter).
Con gli anni Gordon Green sta affinando il suo stile, questo è indubbio. Dopo “Prince Avalanche” e “Joe”, questo “Manglehorn” rappresenta una nuova declinazione del rapporto conflittuale tra uomo e società, con una differenza essenziale: se nei primi due film l’ambiente che faceva da teatro alle storie dei protagonisti ricopriva un’importanza drammaturgica fondamentale, qui il focus centrale è su Manglehorn e la vicenda, così, si struttura come se fosse un lungo flusso di pensieri, in cui desideri, paure e sogni si mescolano e formano un unico, solido, blocco narrativo.
Quelle scelte stilistiche ed espressive che caratterizzavano la seconda parte di “Joe” e, in quel caso, non riuscivano a integrarsi bene nel tessuto della storia, in “Manglehorn” si fanno struttura portante e si unificano in un linguaggio originale, stimolante e anche sperimentale; lavorando sulle dissolvenze incrociate e in nero, sulla mescolanza di colori e supportato da un ottimo montaggio dell’immagine e del sonoro, Gordon Green crea un apparato estetico che calza alla grande con la scelta di fare di Manglehorn e del suo sguardo il principale filtro narrativo, la prospettiva dalla quale osservare la vicenda.
Al Pacino, ancor più che il Nicolas Cage di “Joe”, si offre all’occhio chirurgico del regista e dà al suo personaggio una perfetta carica di tristezza e disillusione: ancora una volta, al centro del racconto c’è un uomo che non riesce ad inserirsi nella società e nel contemporaneo e che, in questo caso, vive soffocato dall’immagine di una donna-fantasma che rincorre con la mente ma non vuole mai realmente possedere. E così le barriere delle mente si fanno concrete, si trasformano nelle pareti di un appartamento che, Manglehorn, condivide solo con il gatto e che segna un confine invalicabile con l’esterno e le sue possibilità di confronto.
Un impianto, dicevamo, dove la ricerca estetica di Gordon Green trova finalmente una piena corrispondenza con il contenuto della storia.
Peccato, però, che sia proprio la scrittura, nella seconda parte del film, a non fargli fare il salto di qualità: la vicenda di Manglehorn incappa in degli espedienti e delle motivazioni che appiattiscono il percorso formativo del personaggio e il suo sviluppo interiore. Come in “Joe” ma in maniera decisamente più contenuta, a un certo punto il film sembra girare intorno, come se mancasse di solidi snodi narrativi a cui appigliarsi, fino a chiudersi in un modo che, probabilmente, è giusto ma non è al momento giusto, risultando frettoloso e approssimativo.
Se quella sperimentazione nello stile e nella forma che costituisce la forza dell’opera avesse corrisposto ad una ricerca narrativa altrettanto stimolante, il film ne avrebbe sicuramente giovato.
Comunque sia, si tratta, a parere di chi scrive, di un deciso passo avanti rispetto al film precedente e di un’opera che, nonostante tutto, offre molte proposte stilistiche ed espressive e costituisce un nuovo tassello nella ricerca artistica di Gordon Green.
La frase:
"Gente ovunque, ma nessuno di loro significa qualcosa per me".
a cura di Stefano La Rosa
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