Il passato
Ahmed torna dall’Iran a Parigi, dopo quattro anni di assenza, per ufficializzare il divorzio con Marie. Trascorrendo del tempo con la vecchia famiglia, si ritrova al centro di crescenti tensioni familiari che affondano le radici in un segreto del passato.
Rimanendo fedele al proprio modo di costruire le storie, Asghar Farhadi utilizza un’indagine su un singolo episodio che si disvela gradualmente per trattare di concetti molto più vasti, sulla scia dell’Antonioni degli esordi e di “Blow-up”. I misteri della scomparsa di un’amica (“About Elly”) e della causa dell’aborto della donna di servizio (“Una separazione”) sono qui sostituiti dall’incertezza di ciò che ha portato la moglie di Samir, il nuovo compagno di Marie, a tentare il suicidio. Farhadi architetta la sceneggiatura attorno a questo nucleo centrale, eliminando lo sfocato sottotesto politico che s’intravedeva sullo sfondo delle sue precedenti opere e affrontando un tema più psicologico-sociologico: è possibile lasciarsi completamente alle spalle il passato e guardare avanti, senza farsi opprimere dal suo peso? Marie ci prova, e inizia a ricostruirsi una vita ridipingendo i muri di casa, ma è ostacolata dai due uomini che faticano dimenticare e ricominciare, quegli stessi due uomini che si sporcano o sono allergici alla vernice. Per rappresentare l’essenza e gli stati d’animo dei personaggi, il regista-sceneggiatore ricorre spesso a metafore come questa, forse troppo evidenti ma efficaci e in grado di offrire un’ulteriore chiave d’accesso alla comprensione dell’opera. Farhadi non rinuncia nemmeno a sollevare importanti quesiti morali su responsabilità, vendetta e silenzi, in un mondo in cui la colpa non appartiene a un singolo ma deve essere distribuita equamente come acqua in vasi comunicanti.
Per il suo primo film al di fuori dell’Iran, Asghar Farhadi sceglie una Parigi lontanissima dall’immagine turistica, scegliendo di ambientare la pellicola in una periferia fredda e desolata, specchio della rassegnazione dei protagonisti. Un luogo asettico come la relazione tra Marie e Samir, nata per colmare il vuoto lasciato da qualcun altro e poco evidente a livello fisico, in un’assenza totale di passione.
Il regista iraniano possiede un talento straordinario per dirigere gli interpreti, e grazie a un attentissimo casting è riuscito a trovare i volti perfetti di attori straordinari e impeccabilmente “naturali”. Ali Mosaffa, Bérénice Bejo (che per questo ruolo si è guadagnata il Prix d’Interprétation féminine all’ultimo Festival di Cannes) e Tahar Rahim sfiorano la perfezione, diretti magistralmente da un regista che sa scavare nel profondo dei personaggi che crea senza alcun tipo di invadenza, con una sensibilità e una compostezza che rendono “Il passato” un film dalla forza incredibile, lento ma coinvolgente come poche pellicole sanno essere, in 130 minuti che scorrono via in un batter d’occhio.
Con il suo sesto lungometraggio, Asghar Farhadi conferma di muoversi nell’ambito di un cinema dall’impronta estremamente personale, molto parlato (quasi teatrale) ma nel contempo nascosto proprio nei silenzi e nel non-detto.
La frase:
"La verità è che in questi casi nulla può essere dato per certo".
a cura di Luca Renucci
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