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Le Mans '66 - La grande sfida

La recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com

di Francesco Lomuscio08 ottobre 2019Voto: 6.0
 

  • Foto dal film Le Mans '66 - La grande sfida
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La storia di un gruppo di uomini anticonvenzionali che, superando mille peripezie, ottengono un risultato eccezionale grazie alla pura inventiva, alla determinazione e alla forza di volontà. È ciò che il candidato al premio Oscar James Mangold – reduce dall’ottimo cinecomic “Logan – The Wolverine” – racconta nelle oltre due ore e mezza di visione in cui immerge Matt Damon e Christian Bale nell’atmosfera di una vera vicenda sportiva consumatasi negli anni Sessanta.
Il primo, infatti, veste i panni del pilota texano Carroll Shelby, il quale, all’apice del successo dopo aver vinto la 24 Ore di Le Mans, ovvero la più difficile tra le gare automobilistiche, scopre di non poter più correre a causa di una grave patologia cardiaca, trovandosi costretto a reinventarsi un lavoro come progettista e venditore di macchine in un magazzino di Venice Beach.
Magazzino al cui interno vanta un team di meccanici e ingegneri comprendenti l’irascibile collaudatore Ken Miles, che, premiato asso del volante britannico e devoto padre di famiglia, è incarnato, appunto, dal secondo.

Un personaggio arrogante, brusco nei modi e poco incline al compromesso, quest’ultimo, del quale apprendiamo non solo i dettagli del la propria amicizia con Shelby, ingaggiato dalla Ford Motor Company per progettare un rivoluzionario veicolo da corsa in grado di battere la Ferrari sul già citato circuito francese di Le Mans, ma anche quelli relativi al legame con la moglie Mollie e il figlio Peter, rispettivamente interpretati da Caitriona Balfe e Noah Jupe.
Perché, con Remo Girone nel ruolo di Enzo Ferrari e un Jon Bernthal ottimo non protagonista in quello di Lee Iacocca, destinato a diventare nella realtà una figura leggendaria dell’industria automobilistica, è la progressiva descrizione dei rapporti tra i diversi rappresentanti del materiale umano tirati in ballo a fare da vero motore (termine più che giusto) alla vicenda, sfoggiante splendidi e fiammeggianti bolidi d’epoca ma tutt’altro che concentrata in maniera esclusiva sulle loro emozionanti imprese sull’asfalto.

Una vicenda che, con tanto di frecciatina ironica rivolta all’agente segreto James Bond, considerato un debosciato proprio perché non guida una Ford (!!!), non dimentica neppure spruzzate di humour nel prendere forma attraverso il serrato montaggio curato a sei mani da Andrew Buckland, Michael McCusker e Dirk Westervelt, nella sola attesa della conclusiva sfida finale su quattro ruote.
Sfida che, come pure il resto del film, individua il proprio fondamentale valore aggiunto nella magnifica fotografia del fido collaboratore mangoldiano Phedon Papamichael, rafforzando la dichiarata scelta registica dell’approccio realistico alle sequenze d’azione in un’epoca cinematografica in cui la computer grafica tende spesso a divorare una buona fetta dei lungometraggi.
Per approdare alla non banale conclusione di un’operazione da grande schermo che, capace sicuramente di conquistare tutti coloro che non possono fare a meno di lucide carrozzerie, acceleratori da premere a fondo e piste su cui sfrecciare a tutta velocità, finisce, però, per risultare in parte penalizzata dalla sua eccessiva, avvertibile lunghezza.


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