La Pecora Nera
Prova superata per Ascanio Celestini, che con "La pecora nera" presenta in concorso alla 67 Mostra del Cinema di Venezia la sua opera prima nella veste di regista.
Il film, infatti, è stato accolto positivamente dalla stampa che ha "animato" con un lungo applauso i titoli di coda privi di commento musicale, e per la sua originalità è stato definito da alcuni giornalisti un "non film". Questo commento è stato accolto positivamente da Celestini, lui stesso lo definisce un film evocativo che non vuole raccontare una storia ma solo un punto di vista.
"La pecora nera" segue dal 1975 al 2005 la vita di Nicola, interpretato dallo stesso Celestini, dall’infanzia vissuta con la nonna fino alla sua condizione di "ospite" in un ospedale psichiatrico (definito istituto dal protagonista).
Al regista non interessa raccontare la fase intermedia di questo viaggio, ci concede di conoscere la storia di Nicola tramite continui flash back tra il 1975 e il 2005. Sin dalle prime immagini risulta evidente il disagio del piccolo Nicola: non ha amici, la madre si trova in un manicomio, il padre e i fratelli – che frequenta pochissimo - lo deridono continuamente. E’ un bambino di poche parole, si anima solo quando riesce a dare voce alla sua fantasia e alla sua immaginazione.
Il disagio di Nicola aumenta quando viene tradito proprio da chi, invece, dovrebbe proteggerlo. E così, sin da piccolo, si ritrova come sua madre "ospite" di un istituto, di quell’unico posto dove tutto funziona perché tutto è in ordine, dell’unico posto che lo può proteggere dal mondo.
L’opera prima di Celestini rispecchia appieno il carattere del suo creatore e protagonista, è un film atipico, "verbale" e privo di musiche, la voce del protagonista è l’unica colonna sonora presente.
In questo è evidente l’origine letteraria del film. Si tratta, infatti, dell’adattamento del romanzo "La pecora nera". Elogio funebre del manicomio "elettrico" scritto dallo stesso Celestini nel 2006, già opera teatrale di grande successo. Nella stesura della sceneggiatura si è proprio cercato di ottenere un giusto equilibrio tra il particolare stile letterario di Celestini e la sua trasposizione nel mondo reale.
Il romanzo, cosi come il film, nasce non come denuncia della legge 180 ma come analisi degli ospedali psichiatrici visti come istituzione consolatoria. Chi vive in un ospedale psichiatrico si trova nella stessa condizione psicologica di chi è stato rinchiuso in un carcere o in campo di concentramento: ogni individuo viene spogliato di tutto, oggetti affetti e responsabilità, ed accudito come farebbe una madre con il proprio neonato.
Vissuta però da adulti questa situazione non fa altro che aumentare un disagio già presente. Come dice il protagonista, i matti hanno il cervello vuoto perché protetti non hanno nulla cui pensare, e il vuoto fa paura.
Il problema non è l’individuo, ma l’istituzione. E nello stesso individuo, e non nell’istituzione, Celestini ripone la sua speranza per il futuro.
E’ forse questa la denuncia, etica e non politica, della pellicola.
Il film scorre veloce. Leggero leggero come le stranezze del protagonista all’inizio, si appesantisce d’angoscia man mano che risulta sempre più evidente lo straniamento di Nicola dal mondo.
L’angoscia diventa sempre più pressante, per diventare alla fine un macigno sottolineato dal silenzio in sala. D’altronde, come dice lo stesso Nicola, i matti hanno il cervello vuoto e il vuoto fa paura.

La frase: "Dove abito io finiscono tutti al manicomio. Qualcuno ci lavora, qualche altro ce lo rinchiudono".

Giuliana Steri

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