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Un mondo fragile











Alfonso (Haimer Leal) è un vecchio contadino che, dopo diciassette anni, torna dalla sua famiglia per accudire il figlio Gerardo, ora gravemente malato.
Ritrova la donna che un tempo era la sua sposa, la giovane nuora e il nipote che non ha mai conosciuto. Il paesaggio che lo attende, però, sembra uno scenario apocalittico: vaste piantagioni di canna da zucchero circondano la casa e un’incessante pioggia di cenere, provocata dai continui incendi per lo sfruttamento delle piantagioni, si abbatte su di loro.
L’unica speranza per tutti è andare via, ma il forte attaccamento a quella terra rende le cose più difficili. Dopo aver abbandonato la sua famiglia per tanti anni, Alfonso ora cercherà di salvarla.
César Augusto Acevedo firma “Il mondo fragile – La tierra y sombra”, dramma a tinte psicologiche ed etiche che dovrebbe far riflettere su un mucchio di temi. La povertà, l’attaccamento alle proprie origini. Il desiderio di ricercare un posto migliore (e migliorarsi), l’attaccamento alla famiglia e alla terra natale, le condizioni disagiate di chi non può scegliere, l’amore oltre alle difficoltà.
Il film dovrebbe parlare di questi temi perchè invece propone 94 minuti di scene strazianti “condite” da dialoghi ridotti all’osso, sempre penosi e sofferenti ,con gli attori che sembra siano stati picchiati prima di ogni singolo primo piano. L’unico a svettare è Haimer Leal, Alfonso, che per altro regala l’unica scena davvero di spessore della pellicola, quella in cui dopo una sbronza si allontana dal bar per far ritorno a casa intonando una canzone popolare incentrata sul connubio inscindibile tra amore e sofferenza. Anche la scena della doccia che riprende la nonna “spogliarsi” del lavoro nei campi è apprezzabile, finanche toccante. STOP.
Il resto sono microscene (collegate tra loro) di: canne da zucchero tagliate, canne da zucchero bruciate e folate di cenere che ricoprono la casa perchè le canne di zucchero sono state tagliate. In tutto questo il senso di forzatura ruggisce per tutta la durata della pellicola. Tutto è eccessivo ed evidenziato quasi il regista volesse mettere un collare al collo dello spettatore e dirgli “Guarda, guarda quanta tristezza, dolore e schifo nel mondo e nella vita”.
Quello che il film vorrebbe fare, ovvero evidenziare una situazione con le sue storture e i suoi non sensi viene completamente travisato tanto che il film alla fine risulta uno spot di un’ora e mezza abbondante su come la vita sia solo sofferenza e sacrifici senza prospettive o ambizioni.
E infatti anche la premessa del film è assurda, Alfonso è l’unico personaggio che ha il buon senso di cambiare strada per cercare di cambiare il proprio destino, la famiglia non lo segue e quando lui torna gli viene anche rinfacciato di aver cercato di migliorare il proprio status quo.
Insomma un film che neanche il peggiore rappresentante sindacale di un paesino del profondo sud avrebbe potuto realizzare.
Un insulto alla vita, alla possibilità che questa rappresenta e a quanto di buono e di gioioso ci sia nel vivere.
Oltretutto la trama si dipana con una lentezza da suscitare il sospetto che il montatore sia stato colto da frequenti e ripetuti malori durante il proprio lavoro.
Sconsigliato a chiunque non sia un amante dell’auto martirio.

La frase:
"Ho imparato che l’amore si scrive col pianto".

a cura di Jacopo Landi

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