L'amore ai tempi del colera
Prendete un versatile regista inglese, un tipo alla mano, di bocca buona pur con una laurea a Cambridge nel cassetto, capace di accostarsi ad un Harry Potter senza rinnegare un Donnie Brasco.
Scegliete nel vasto panorama letterario mondiale un mito “infilmabile”, uno di quegli scrittori evocativi e sublimi cui molti scelgono per principio di non accostarsi, paventando allergie poco nobili alla carta stampata che non rendono giustizia al capolavoro nascosto tra gli scaffali. Miscelate l’improbabile duo con un cast quantomeno peculiare, iper caratterizzato, colorito a tinte forti quanto il panorama colombiano che fa da cornice alla vicenda narrata.
La magia sceglierà poi di compiersi o non compiersi: l’impegno di certo è stato profuso a manciate molto (troppo?) generose.

Quella che, poco originalmente, ci si presenta sulla locandina come “la più grande storia d’amore mai raccontata”, è la tutt’altro che canonica ode al romanticismo che vincola per più di mezzo secolo Florentino Ariza (Javier Bardem), in principio giovane telegrafista e poeta, a Fermina Daza (Giovanna Mezzogiorno), bella figlia di un collerico arricchito. A cavallo tra Ottocento e Novecento, la vita dei due, per i celeberrimi “cinquantatre anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese”, li vedrà destinati a differire la felicità insieme fino all’improbabile, meravigliosa riunione: prima il padre di lei, poi gli anni depositatisi fra i due sono veleno tossico contro il loro amore timido di adolescenti voraci. Ed è inevitabile per Fermina rifarsi una vita, sposare un rassicurante dottore, ignorare la voce ammaliante e pericolosa del ricordo. Ma Florentino non si arrenderà.
Il Sudamerica dei battelli fluviali, squisitamente grottesco, visionario e decadente dal quale i romanzi di Gabriel Garcia Marquez - perché di lui si tratta - ci hanno reso dipendenti ci si mostra qui nel più barocco affastellamento di cortili, pollame e vegetazione rigogliosa. E, proprio per questo, soffoca.

Spiace constatare che della folle mistica marqueziana siano rimasti unicamente gli scheletri dei personaggi a fare monito. Javier Bardem, sex symbol ispanico e molto di più, come sempre riesce ad operare su di sé la sorprendente metamorfosi che lo ha mutato da feticcio taurino di Almodòvar in straordinario paraplegico per Amenàbar, ma forse eccede nel rattrappirsi sotto le spoglie sfuggenti dello spasimante di Mina, trasformando in un gobbetto mansueto che procede a piccoli passi quella che doveva essere l’ombra risoluta, lieve ma inesorabile dell’amante inesausto di mille donne e di un’unica donna. La nostra Giovanna Mezzogiorno, altrove conquistatrice di critica e spesso sorprendentemente intensa, mal adatta gli occhi algidi e l’incarnato diafano ai sapori di una terra di sole qui dipinta in modo sin troppo vivido per amalgamare piacevolmente la discromia. Il regista Mike Newell, per sua stessa ammissione, non riesce a non brutalizzare l’opera sottoponendola a cesure inevitabili ma severe, privando i personaggi di motivazione intrinseca e l’intero lavoro di suggestioni irrinunciabili. Ascia alla mano. Finché, purtroppo, l’affresco che splendidamente macchia il bianco e nero della pagina scritta non rinuncia a compiere il balzo, a staccarsi da quella copertina, riducendo a macchietta e cerone ciò che doveva essere seducente febbre.

La frase:
- "Vi sto chiedendo di trovare a mio figlio un lavoro in un posto lontano, dove non arrivino né poste né telegrafo".
- "Cuore infranto, eh?".

Domitilla Pirro

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