La leggenda di Kaspar Hauser
Un western dell'assurdo, aperto da dischi volanti in volo su una distesa desolata e un duello-danza nella piazza di un paese fantasma. Insieme al precedente “Beket”, sempre scritto e diretto da Davide Manuli, “La Leggenda di Kaspar Hauser” costituisce un dittico caratterizzato da fotografia in bianco e nero, luminosa e contrastata (di Tarek Ben Abdallah), una desertica Sardegna costiera fuori dalle dimensioni spazio-tempo, un'atmosfera sospesa, brevi episodi a quadri autonomi, pochi personaggi. Che, a partire dai costumi, formano una galleria circense rappresentata innanzitutto da un androgino protagonista (l'attrice e danzatrice Silvia Calderoni) col nome inciso sul petto, vestito di una tuta bianca con su scritto UFO, sempre preso dalla danza (fisse sulle orecchie, delle cuffie audio con il cavo penzolante a suggerire un ritmo tutto interno a lui), il quale schiuma dalla bocca ed è capace di numeri da baraccone; e poi Vincent Gallo nel doppio ruolo di sceriffo - una sorta di chiaroveggente che “sente” l'arrivo del cosiddetto “re” investendolo di parecchie aspettative (“sarò tuo amico, tuo padre, mi prenderò cura di te”) - e spacciatore, un Fabrizio Gifuni dialettale frate in tunica (“ho voluto fare il prete per non avere troppi grilli nella testa”) interprete di formidabili monologhi in folle libertà.
Del misterioso nuovo arrivato, spinto sulla spiaggia dalle onde marine, ognuno interpreta o distorce le poche frasi come vuole, arrivando anche a considerarlo un truffatore. Ma si tratta sempre di proiezioni, dato che invece lui vive una dimensione pressoché autistica di dipendenza dalla musica - in paradiso farà il disc jokey come il tutore della Legge gli ha insegnato - dettata dalle melodie elettroniche originali e onnipresenti di Vitalic.
Ne risulta un estremizzato apologo sul confronto con lo sconosciuto altro da sé, in cui una comunità specchia le proprie pulsioni.
La frase:
"Fate largo, via dalla mia strada!".
a cura di Federico Raponi
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