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Youth - La giovinezza











Fred (Michael Caine) e Mick (Harvey Keitel), due vecchi amici alla soglia degli ottant'anni, trascorrono insieme le proprie vacanze in un elegante albergo in Svizzera.
Fred è un compositore e direttore d'orchestra ormai in pensione e Mick un regista in piena crisi creativa.
Perfettamente consapevoli di come il loro futuro si vada velocemente esaurendo, i due uomini guardano con un misto di curiosità e tenerezza alla vita confusa dei propri figli, all'entusiasmo dei giovani collaboratori di Mick, agli altri ospiti dell'albergo e a chiunque sembri disporre di un tempo che a loro non è dato.
E mentre Mick si affanna nel tentativo di concludere la sceneggiatura di quello che ritiene poter essere il suo testamento artistico, Fred ha da tempo ha rinunciato alla musica e sembra non avere alcuna intenzione di tornare sui propri passi.
Terzo e, presumibilmente ultimo, atto di un'ideale trilogia con la quale Paolo Sorrentino si interroga sul tempo che passa e sulle tracce che, nell'arco di un'intera vita, ci lasciamo alle spalle. Se, infatti, This Must Be The Place si concentrava sul difficile spartiacque dei quarant'anni e La grande bellezza sui rimpianti di un sessantenne che sente di essersi perso da qualche parte lungo la strada, Youth è interamente focalizzato sul raggiungimento della terza età e sull'idea di una morte che appare sempre più come drammaticamente ineluttabile e vicina.
Lo strumento scelto per tradurre in immagini lo scorrere del tempo è, come già in precedenza, quello della stasi o, in altre parole, di una messa in pausa della vita, imposta dall'esterno o autoinflitta che sia, necessaria per ragionare a mente lucida e a ricordare ciò che si è fatto senza che nulla accada o intervenga a turbare il corso di queste riflessioni.
Fred e Mick, in tal senso, si muovono in perfetta antitesi con il Jep Gambardella de La grande bellezza: laddove quest'ultimo si circondava di rumori di fondo (quelli che, nel film, venivano chiamati "chiacchiericcio incessante") così da non essere costretto ad ascoltare le proprie voci di dentro, questi due attempati artisti quelle voci addirittura le cercano e, in qualche modo, le invocano proprio.
Solo che, una volta cancellati i rumori di fondo, la realtà che si rivela allo spettatore è molto più piatta e monocorde di quanto non ci si sarebbe aspettati.
La progressione anagrafica dei personaggi descritti da Sorrentino nei tre film succitati si è, infatti, accompagnata ad un graduale processo di scarnificazione narrativa che, a partire dal già esile plot che vedeva Cheyenne/Sean Penn seguire le tracce dell'aguzzino nazista di suo padre in This Must Be The Place, arriva, di fatto, in Youth ad un totale azzeramento di qualunque cosa assomigli anche lontanamente ad una trama.
Complice anche il fatto che per la prima volta Sorrentino non si confronti con un personaggio dichiaratamente extra-ordinario - costante finora di ogni sua opera - Youth paga il prezzo di aspettative altissime e crolla inesorabilmente sotto il peso della propria ambizione e di uno script che ruota troppo attorno a sé stesso, un po' come la pedana girevole su cui si esibisce la band nella bellissima sequenza che lo apre.
Se, infatti, in un primo momento, il brio di alcuni scambi di battute tra i due protagonisti può lasciar pensare a un alleggerimento degli usuali toni sorrentiniani, è ben presto chiaro come stavolta l'arguzia del Sorrentino dialoghista non riesca a coprire le sue mancanze in termini di pura costruzione di una storia.
Anzi, a questo giro nemmeno la sua enorme perizia tecnica di regista, diventata con gli anni davvero impressionante, può nulla rispetto all'amara (per chi scrive amarissima) constatazione che una storia da raccontare qui proprio non ci sia.
Ci sono quindi riprese e movimenti di macchina talmente belli e raffinati da togliere il fiato, musiche evocative e mai banali (dopo i Lali Puna e Antony & the Johnsons, qui tocca a Mark Kozelek e ai suoi Sun Kil Moon), dialoghi sopra la media e, a tratti, anche squisitamente autoreferenziali (il botta e risposta tra Harvey Keitel e Jane Fonda sulle differenze tra cinema e TV non può non far pensare alla prossima avventura di Sorrentino con la serie TV The Young Pope) e tutto il corredo di bizzarre figurine di contorno che appaiono e scompaiono a cui l'autore napoletano ci ha abituato sin dai tempi de Le conseguenze dell'amore.
Rimane il fatto che però una storia vera e propria non c'è. Ed è un vero peccato che, ad un talento visivo che in Italia non ha eguali, non corrisponda il giusto contraltare narrativo e soprattutto che un cast così ben assortito (Caine e Keitel sono, ça va sans dire, straordinari) non sia supportato da ben altro script.
A tratti sembra quasi che Sorrentino, infastidito dalle fazioni di detrattori che da sempre ne criticano eccessi di forma e carenze testuali, abbia deciso, con un gesto a metà strada tra l'eccesso di sicurezza nei propri mezzi e l'autolesionismo, di sfidarli, finendo col dar loro ragione.
Sebbene più sobrio nell'impianto rispetto a La grande bellezza (se non altro qui non ci sono né fenicotteri né anziane santone) Youth non condivide con quel capolavoro la medesima capacità di trasformare la propria forma in sostanza e rimane fermo lì, come un lussuosissimo esercizio di stile privo di cuore.
Una battuta d'arresto inaspettata che speriamo spinga Sorrentino - autore dotato di uno strabordante talento che finora era sempre riuscito a contenere - a un ripensamento totale del proprio modo di far cinema.
In caso contrario, il rischio è quello di ripetersi in maniera pedissequa o, peggio, dell'auto-parodia.

La frase:
"Tu hai detto che le emozioni sono sopravvalutate, ma è una vera stronzata. Le emozioni sono tutto quello che abbiamo".

a cura di Fabio Giusti

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