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La buca











Con titoli di testa animati che spingono immediatamente a pensare sia al cinema del californiano Tim Burton che a quello del francese Jean-Pierre Jeunet, il siciliano classe 1962 Daniele Ciprì torna dietro la macchina da presa – a due anni dal riuscito “È stato il figlio” – per il suo secondo lungometraggio da grande schermo realizzato senza l’affiancamento dello storico collaboratore Franco Maresco.
Del resto, se, per quanto riguarda l’aspetto visivo, una certa cupezza tipica dell’autore di “Frankeenweenie” (2012) non tarda ad emergere, non si può davvero fare a meno di avvertire dinamiche e costruzioni dei grotteschi personaggi alla maniera di colui che ci regalò “Delicatessen” (1991) e “Il favoloso mondo di Amélie” (2001) nel corso della circa ora e mezza di visione che prende il via da un cane arruffato, inconsapevole pretesto dell’incontro di due umanità disordinate e precarie.
Cane che, simbolica rappresentazione della vita, nonché emblema dell’amicizia autentica, fedele e senza riserve, morde il burbero e truffaldino avvocato Oscar alias Sergio Castellitto, il quale prima vorrebbe trarre profitto dall’incidente facendo causa al proprietario Armando, ovvero Rocco Papaleo, poi, appreso che quest’ultimo altro non è che un povero disgraziato appena uscito di prigione dopo aver scontato ingiustamente una pena di trent’anni, decide di sfruttarlo per farla, milionaria, ai danni dello Stato.
Quindi, con Valeria Bruni Tedeschi nei panni della sensibile barista Carmen, è la ricerca di prove e di indizi effettuata dai due improvvisati, improbabili amici che sembrano usciti da “I mostri” (1963) di Dino Risi a dominare la vicenda, ambientata in una città immaginaria e comprendente nel cast, tra gli altri, Lucia Ocone, Ivan Franek, Fabio Camilli e Teco Celio.
Vicenda di cui Ciprì, come di consueto, cura anche la splendida fotografia, man mano che alterna umorismo ed amarezza senza dimenticare, oltretutto, omaggi a “Quarto potere” (1941) di Orson Welles e “Frankenstein Junior” (1974) di Mel Brooks.
Omaggi che sembrano abbracciare anche l’epoca del muto (si pensi alla sequenza dello scippo), mentre l’ottimo montaggio di Giogiò Franchini e la colonna sonora swingeggiante a firma di Pino Donaggio e Zeno Gabaglio provvedono a scandire il buon ritmo narrativo di una coinvolgente commedia dai toni quasi favolistici che, una volta tanto, testimonia la concreta possibilità di confezionare su suolo tricolore elaborati di celluloide distanti dall’asettico look delle fiction televisive ed in possesso degli elementi tecnico-artistici che gli possano permettere di varcare i confini nazionali.

La frase:
"Tu per lui sei un business, un lavoro".

a cura di Francesco Lomuscio

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