Il terzo tempo
Il rugby non ha regole, ma leggi. Se riesci a rimanere in piedi, i tuoi compagni ti sosterranno.
Ed è proprio lo sport che si gioca con la palla ovale a fare da sfondo alla vicenda posta al centro del primo lungometraggio diretto da Enrico Maria Artale, il cui protagonista è il Lorenzo Richelmy di "100 metri dal paradiso" (2012) nei panni di Samuel, ragazzo nato e cresciuto in condizioni difficili e violente che, da anni, entra ed esce dal carcere; fino al giorno in cui il magistrato di sorveglianza, terminato l’ennesimo periodo di reclusione, decide di inserirlo in un programma di riabilitazione presso un’azienda agricola di un paese di provincia.
Posto alle cui "leggi" e ritmi si adatta difficilmente, spingendo il suo supervisore Vincenzo alias Stefano Cassetti, assistente sociale che ricopre anche l’incarico di allenatore della squadra locale di rugby gestita da Teresa, ovvero Stefania Rocca, a convincerlo a provare a cimentarsi in mischie, calci piazzati e mete.
Quindi, tra primi allenamenti fallimentari e incapacità di legare con i compagni di campo, è sull’ideale percorso di rinascita effettuato dal protagonista attraverso l’attività sportiva che si concentra l’operazione, man mano che lo vediamo anche impegnato a instaurare un legame affettivo con Flavia, figlia di Vincenzo cui concede anima e corpo la televisiva Margherita Laterza.
Perché, assumendo chiari connotati di metafora di vita, il terzo tempo del titolo è quello che si svolge al termine di ogni partita tra le squadre avversarie e le tifoserie per celebrare vincitori e vinti e riconoscere il valore e le capacità di entrambe le formazioni.
Ma, a partire dal fatto che, anziché il solito calcio, abbiamo una tipologia di sport decisamente molto meno seguita dagli italiani, la pellicola in questione, pur essendo immersa nelle scenografie tipiche dello stivale tricolore e presentando, a tratti, un ritmo da fiction destinata al piccolo schermo, riesce nella non facile impresa di sfoggiare un look internazionale.
Infatti, sebbene non risultino assenti neppure situazioni per (sor)ridere, il suo cuore è quello di una vicenda basata sul riscatto personale e la corsa verso la vittoria, proprio come quelle che tanto piacciono al pubblico americano da blockbuster.
Poco importa, allora, se già sappiamo tutto fin dall’inizio, in quanto, per merito anche di un uso del ralenti e della colonna sonora che poco risulta accostabile a quello che ne viene fatto da tanti cineasti nostrani, Artale può ritenersi pienamente soddisfatto di aver portato a termine un elaborato concepito sì nella terra di Carlo Vanzina e Paolo Sorrentino, ma tranquillamente in grado di varcarne i confini senza lasciare intuire la propria nazionalità.
La frase:
"Sai che ti dico? Se sei nato per perdere, perdi e stai zitto".
a cura di Francesco Lomuscio
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