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Il sole dentro











Il punto di partenza è la tragica morte dei due adolescenti Yaguine e Fodé, i quali, alla fine degli anni Novanta, persero la vita nel carrello di atterraggio di un aereo diretto a Bruxelles nel desiderio di consegnare ai "Potenti del mondo" un appello perché tutti i bambini avessero pari opportunità ed eguale accesso a istruzione, cibo e cure.
Un fatto realmente accaduto che s’incrocia con la vicenda di finzione dell’africano Thabo e dell’italiano Rocco, i quali, rispettivamente con le fattezze di Fallou Kama e Gaetano Fresa, si ritrovano dieci anni dopo a dover intraprendere un lungo viaggio a piedi, dall’Europa all’Africa, in quanto vittime del mercato dei bambini calciatori, da cui sono fuggiti.
Un lungo viaggio all’insegna dell’amicizia e degli incontri inaspettati che, un po’ come accadeva al Tom Hanks di "Cast away" (2000), li vede unicamente in compagnia di un pallone; man mano che fanno la loro entrata in scena volti noti dello spettacolo nostrano, da Giobbe Covatta nei panni di un autista di pullman ad Angela Finocchiaro, passando per Francesco Salvi, come di consueto impegnato a regalare un personaggio piuttosto folle.
Senza dimenticare i divertenti interventi del Diego Bianchi della trasmissione televisiva "Parla con me", al servizio di un insieme che, però, più che ricordare la citata versione zemeckisiana di "Robinson Crusoe", sembra possedere elementi di fondo non distanti da quelli che caratterizzarono un certo cinema francese di tanti anni fa, da "I quattrocento colpi" (1959) di François Truffaut a "La guerra dei bottoni" (1962) di Yves Robert.
E, in particolar modo nei momenti che si svolgono sulle aride distese africane, non sono da escludere neppure vaghe suggestioni western; anche perché il regista Paolo Bianchini, legato al nostro cinema di genere che fu, tra un "Hipnos - Follia di un massacro" (1967) e un "SuperAndy, il fratello brutto di Superman" (1979) trovò il tempo di realizzare, tra gli altri, "Lo voglio morto" (1968) e "Quel caldo maledetto giorno di fuoco" (1968).
Non a caso, è proprio una regia senza fronzoli e tipica della vecchia ma sempre efficace "celluloide artigianale" tricolore a caratterizzare la circa ora e quaranta di visione; in parte penalizzata da qualche evitabile lungaggine e più volte non distante da una fiction televisiva, ma capace di coinvolgere sufficientemente e, soprattutto, di portare a compimento il proprio compito di trasmettere un messaggio di speranza all’umanità (ricordiamo che il lungometraggio è anche sostenuto dall’UNICEF).

La frase:
"Amici per sempre".

a cura di Francesco Lomuscio

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