Il racconto dei racconti
C'erano una volta tre regni vicini, dove vivevano, nei loro castelli, re e regine.
La Regina di Selvascura (Salma Hayek) è ossessionata dall'idea di avere un figlio al punto da accettare, su consiglio di un negromante, di mangiare il cuore di un drago marino cucinato da una vergine.
Finalmente resta incinta di Elias, ma partorisce anche la sguattera che ha cucinato per lei il cuore.
I due bambini, identici come gocce d'acqua, saranno legati da un affetto profondissimo che la Regina osteggerà in ogni modo.
Il lascivo Re di Roccaforte (Vincent Cassel) sente una voce deliziosa provenire da un'umile dimora nei pressi del suo castello e se ne innamora perdutamente, convinto che non possa appartenere che a una bellissima fanciulla.
Ignora, il Re, che in quella casa vivono solo due anziane sorelle che cercheranno comunque di sfruttare la situazione a loro vantaggio.
Il Re di Altomonte (Toby Jones) cattura una pulce e ne fa il suo animale domestico: ci gioca, le parla, la nutre e la vede crescere a dismisura fino a raggiungere le dimensioni di un maiale.
Alla morte dell'enorme insetto, il Re, addolorato, la fa scuoiare e ha la folle idea di concedere la mano di sua figlia Viola all'uomo che saprà riconoscere a quale animale appartenga quella pelle.
I pretendenti, uno dopo l'altro, falliscono tutti . Tranne un orco dotato di un fiuto infallibile.
Boccaccio incontra Tolkien in questa splendida e ricca trasposizione cinematografica de "Lo cunto de li cunti", raccolta di racconti scritti da Giambattista Basile nel '600, nota anche come Pentamerone.
Progetto rischioso perché indissolubilmente legato all'idea di un genere, il fantasy, mai battuto in Italia, Il racconto dei racconti è in realtà, dietro il respiro internazionale del cast e lo sfarzo produttivo che lo incorniciano, non solo un'opera assolutamente in linea con il sentiero artistico percorso da Matteo Garrone fino ad ora, ma anzi, in qualche modo, ne rappresenta la summa concettuale.
Tutto il pessimismo e le ossessioni disseminate dall'autore nei suoi precedenti film trovano qui la loro perfetta collocazione, estremizzate dalle possibilità che il genere offre in termini di forzatura dei limiti imposti dal reale.
L'immaginario rappresentato è da subito austero e parla di morte, fin dal bellissimo piano sequenza iniziale che ci introduce nel castello di Selvascura con l'incedere lento di chi non è neanche troppo sicuro di voler davvero entrare.
All'interno un gruppo di saltimbanchi - tra cui spicca l'onnipresente Alba Rohrwacher, qui in un ruolo minore - cerca invano di divertire una regina inconsolabile nel suo desiderio frustrato di maternità.
Ecco quindi che il film si disvela allo spettatore già in un'unica scena in cui Garrone sembra avvertirlo che lo spettacolo, seppure costruito attorno all'esteticamente bello, non sarà affatto un piacevole intrattenimento, o almeno non solo.
Qui tutto riporta al concetto di corpo e alla sua inadeguatezza, topoi sia de L'imbalsamatore sia dell'eccezionale Primo amore (e, per molti versi, anche dell'esordio di Garrone, Terra di mezzo) che nemmeno la magia di un negromante o di una strega riescono a superare.
Corpi sgraziati come quello dell'orco, fortemente connotati come i figli, entrambi albini, nati dal cuore del drago marino o semplicemente avviliti dai segni dell'età.
Opera interamente virata al femminile in cui il maschio appare come poco più che un semplice strumento che permette alle donne di raggiungere uno scopo (la morte di John C.Reilly durante la cattura del drago marino e l'indifferenza di Salma Hayek di fronte al suo corpo esanime, in questo senso, sono piuttosto esemplificative) Il racconto dei racconti utilizza la fiaba per raccontare cose molto poco fiabesche come la solitudine, l'incontrovertibile trasformazione della carne e il prezzo che ogni inganno, prima o poi, porta a pagare.
Lo stile visivo, inizialmente felliniano in maniera quasi forzata, si fa via via più austero fino a diventare mortifero e lambire territori più cari a Kubrick, con un rimando piuttosto palese a Shining nella bellissima scena in cui vediamo la Regina inseguire suo figlio, in un misto di atmosfere giocosa e ansiogena, all'interno di un labirinto di pietra.
L'utilizzo sobrio di effettistica digitale, l'apporto musicale sontuoso ma mai invasivo di Alexandre Desplat e le ambientazioni in location esistenti piuttosto che ricreate in studio, contribuiscono a ridurre al minimo sindacale il rischio di eccedere in atmosfere sognanti (non siamo insomma dalle parti di Terry Gilliam) e a mantenere tutto su un piano di inquietante realtà.
C'è un respiro cinematografico altissimo ne Il racconto dei racconti e la composizione di ogni singola inquadratura, fortemente debitrice di certa pittura barocca, è impeccabile.
Garrone riesce però a non cadere mai nella grandeur di chi vuole strafare e lavorando sul perturbante - mutuando suggestioni anche dall'horror gotico, l'autore dimostra una notevole dimestichezza con i generi - trova la sintesi perfetta tra cinema d'autore e kolossal.
Si respira soprattutto un'infinita passione per il cinema ed è quella stessa passione che spinge a soprassedere volentieri anche su una parte centrale un po' farraginosa, che rallenta il ritmo del racconto fino a rischiare di stemperare una tensione fino a quel momento crescente.
Piuttosto a fine visione è chiara la sensazione di aver appena assistito a qualcosa di importante, anzi di importantissimo.
Qualcosa di cui si continuerà a parlare per parecchi anni.
La frase:
"Ogni nuova vita richiede la perdita di un'altra vita".
a cura di Fabio Giusti
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