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Il muro
Dalla locandina, Il muro darebbe l'impressione di essere uno di quei film futuristici a low-cost che ricordano tanto lavori come "Codice 46", di Winterbottom, o "Solaris" di Soderbergh.
Ed invece è tutto vero.
Il muro della locandina, così algido, imponente, irreale, si ripropone in modo devastante nella realtà. E per di più in una realtà tanto complessa e martoriata come quella di Israele, della Terra Santa.
Mettendo subito in chiaro le cose, diciamo che "Il muro" (semplicemente "Mur" nel titolo originale) è un documentario. Un documentario, tuttavia, lontano anni luce dallo stile aggressivo, minimalista, tutto incentrato e costruito sul montaggio di quella tipologia documentaristica alla quale ci ha abituati Michael Moore.
E la forma visiva, trae le sue radici dal sentimento della regista, dalle emozioni e dalle sensazioni di un vissuto. "Il muro è politico, perché tutto è politica, ma non parla di politica. Parla di me, di noi". Questo quel che dice Simone Bitton, marocchina di origine e residenza ebraico-israeliana, sul suo lavoro.
E la Bitton, al suo sedicesimo documentario, ma alla sua prima opera prodotta per il cinema, traduce la sua visione di questo paese, di questo muro, in immagine.
Il muro, ce lo dice il generale Yaron, del Ministero della Difesa israeliano, è quel serpentone di cemento armato, torrette e filo spinato che, nelle intenzioni del governo israeliano, dovrebbe arginare in modo decisivo il fenomeno del terrorismo.
Ma la regista ci introduce, con lunghe inquadrature fisse, con l'unione delle immagini con il sonoro insieme diegetico ed extra-diegetico, ad aprire lo sguardo verso le molteplici implicazioni di un "mostro" architettonico del genere.
Valga per tutte la lunga fissità dell'occhio della macchina che, aperto su un orizzonte assolato di case e campi, viene a poco a poco ostruito, otturato, dai lastroni di cemento che si affastellano l'uno dopo l'altro.
La visione della Bitton è serena, pacata. A differenza di altri, fa lavorare le immagini, la sola e disarmate verità del reale, descrivendoci una terra che continua a vivere, a dover vivere, nonostante si trovi ad imbattersi con muri, culturali e mentali prima ancora che fisici.
La frase: "Qualcuno conosce una soluzione per queste terre? Non mi pare. Il muro? No, non può essere una soluzione".
Pietro Salvatori
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