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Il figlio dell'altra











Siamo tutti uomini. Non tutti, però, sono liberi. Ognuno è legato più o meno elasticamente a sottili fili che lasciano un segno indelebile sulla pelle. Sono i vincoli dell’ideologia, della religione, delle tradizioni che, con un impegno variabile, qualcuno riesce ad aggirare. Più raramente, invece, vengono dimenticati. Ebrea ma atea, né israeliana né palestinese, la regista francese Lorraine Lévy, nata nel teatro, si lancia in un’operazione emozionante e delicata con Il figlio dell’altra, piccolo gioiello fuori concorso al 30° Torino Film Festival. Un gioco del destino mette a confronto le linee nemiche.
Senza troppo ostentare la traccia politica, che si distende nel sottotesto con un respiro lieve ma essenziale, la Lévy riesce a dipingere un ritratto dell’oggi libero da falsi sentimentalismi o facili moralismi, dove la riflessione si distanzia dalla vena poetica che si stende per tutta l’opera senza mai risultare eccessiva. Un film che è un ottimo esempio di dolcezza impastata alla pesante consistenza della realtà. L’intensità di un dramma intimo si estende universalmente a popoli nati uguali, ma divisi nell’anima da pietre che si alzano grigie al cielo. Joseph vive a Tel Aviv, lontano da scontri, placidamente cullato da una famiglia protettiva e amorevole, sogna l’esercito sulle note di una chitarra strimpellata e ancora non sente l’urgenza dell’età adulta. Yacine ha studiato a Parigi, cresciuto forzatamente per l’esilio in terra straniera votato alla medicina, ama profondamente la propria famiglia e immagina la costruzione di un ospedale nella propria terra. Joseph è ebreo, Yacine arabo, separati da una striscia murata, ma uniti da un legame invisibile e insieme indissolubile. Nati nello stesso ospedale e nello stesso momento, i due bambini vengono confusi dalle infermiere e destinati ai genitori sbagliati. Il trauma sconvolge quegli equilibri costruiti così duramente in un tempo segnato dalla fragilità. Nessuno è l’impostore, eppure lo sono entrambi, sradicati in un battito di ciglia da quei valori che ne sorreggevano gli spiriti, lacerti da un passato di menzogna che macchia inevitabilmente il futuro. Temi di graffiante attualità si disseminano all’interno di un’opera girata in modo misurato, dove il dramma rimbalza da un corpo all’altro per essere assorbito da quella speranza che i protagonisti riescono ad elevare fino all’esplosione soleggiata dell’ultimo fotogramma. Si imprimono indelebili nella mente le suggestive immagini di un paese tagliato a metà, dove l’istinto di conservazione è in costante allerta e ogni brusìo fa vibrare l’aria densa di sospetti. Il cast multietnico, capitanato da un’algida Emmanuelle Devos, si distingue per la sorprendente intensità dei giovani attori, che riescono in una prova di grande tensione emotiva. Mentre i padri restano tra le fila nascoste, incerti sull’attacco o la battuta in ritirata, le madri covano quell’innato desiderio che si sprigiona dal ventre e sole riescono a destare la forza di un cambiamento tanto insopportabile nel cuore dei propri uomini. Solo così Joseph e Yacine si riconoscono fratelli, l’uno riflesso nell’altro, in grado di vivere un’esistenza normale senza l’obbligo di combattere una guerra che non appartiene loro, non più ignorati per essere cresciuti dalla parte sbagliata della barriera. Forse, finalmente riscattati da quello stesso nodo che li stringe tra loro e li scioglie dal sé.

La frase:
"Non ho il diritto di sentirmi ebreo e non mi sento per niente arabo".

a cura di Marta Gasparroni

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