Il buono, il matto, il cattivo
S’intuisce già un certo taglio generale non eccessivamente volto alla serietà nel corso dei titoli di testa del lungometraggio attraverso cui il coreano Kim Jee-woon – autore dell’horror "Two sisters" (2003) e del noir d’azione "Bittersweet life" (2005) – tenta in maniera evidente di omaggiare il genere cinematografico preferito dal compianto Sergio Leone.
Non a caso, vengono portati in scena in maniera piuttosto ironica, quasi cartoonesca, i tre protagonisti che, ricordando proprio i Clint Eastwood, Lee Van Cleef ed Eli Wallach de "Il buono il brutto il cattivo" (1966), lottano senza sosta, nella Manciuria degli anni Trenta, per il possesso di una mappa che pare conduca ai favolosi tesori della dinastia Qing: un ladro con le fattezze di Song Kang-ho, impadronitosene dopo una rapina a bordo di un treno, un killer dandy nei cui panni troviamo Lee Byung-heon, incaricato di recuperarla, e un cacciatore di taglie interpretato da Jung Woosung, deciso a trovarla per conto dell’esercito indipendentista coreano.
Ma, sebbene dal citato autore nostrano l’insieme sembri riprendere soprattutto una certa tipologia di violenza presente, è impossibile non notare anche influenze provenienti dal cinema dei cowboy di John Ford e derivati, in particolar modo per quanto riguarda le sequenze altamente spettacolari, e dai film di samurai, a loro volta anticipatori proprio dello Spaghetti western.
E, in mezzo a lame grottescamente conficcate là dove non batte il sole e macchina da presa che rimane raramente ferma, l’abbondanza di movimento viene orchestrata tra pallottole volanti e scontri che, come nella miglior tradizione orientale dell’action-movie, si costruiscono su vere e proprie coreografie, a mo’ di divertenti balletti di morte.
Sarebbe sufficiente citare il lungo, coinvolgente conflitto accompagnato dalla base di "Don’t let me be misunderstood", la quale sembra addirittura funzionare meglio qui che posta da Quentin Tarantino a commento del duello tra Uma Thurman e Lucy Liu in "Kill Bill volume 1" (2003).
Mentre Kim Jee-won corre il solo rischio di dover fare i conti con il volersi dimostrare presuntuosamente autore con la "a" maiuscola a tutti i costi, tanto che l’eccessiva durata (siamo sulle due ore e dieci circa) tende a infiacchire nella seconda parte quello che, in ogni caso, rimane un godibile e tutt’altro che realistico prodotto d’intrattenimento dagli occhi a mandorla girato con professionalità.
La frase:
"Voi coreani capite solo le maniere forti".
a cura di Francesco Lomuscio
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