Hair
E' incredibile come ogni film che parli di guerra, di qualsiasi guerra, girato trent'anni fa o ieri, risulti sempre attuale. E' incredibile ma è anche atroce perché vuol dire che la gente (o meglio la gente che sta in alto) non ha imparato assolutamente niente dagli sbagli. "Hair" è un film che parla di una guerra che ha lasciato una ferita profonda nella coscienza degli Stati Uniti: il Vietnam. Però lo fa in maniera diversa, lo fa usando la struttura del musical. C'è da dire che questa forma, nel cinema americano degli anni settanta ("Hair" è del 1979), ebbe una seconda giovinezza per cui era lecito osare "cantando". E poi il regista Milos Forman, cecoslovacco, veniva dall'esperienza di "Qualcuno volò sul nido del cuculo" film straordinario ma amarissimo su una delle tante morti del sogno americano (così come la guerra del Vietnam).
La storia è quella di Claude (interpretato da John Savage, già soldato ne "Il cacciatore": il più grande film sul Vietnam), che da un paesetto della campagna viene richiamato alle armi per difendere la patria in una guerra che sta degenerando. Nei suoi ultimi due giorni da uomo libero, Claude frequenta una comunità di hippies e si innamora di una ricca borghese (Beverly D'Angelo) che sembra sia più interessata al capobanda vagabondo (il bravissimo Treat Williams) che al futuro soldato. I ragazzi della compagnia non riescono a convincere Claude a disertare. La sua partenza segnerà le vite di tutti.
Nel parlare di un film che in tanti hanno già visto e amato o odiato (spero che questi ultimi siano veramente pochi), si corre il pericolo di dire cose già dette, tanto più se ne parliamo venticinque anni dopo. Però, per quelli che sono ventenni ora, c'è un solo consiglio: andatelo a vedere. Primo: perché il film è bello. Secondo perché la colonna sonora è straordinaria (molti, anche se giovanissimi, ricorderanno almeno "Aquarius" colonna sonora di tante brutte coreografie televisive). Terzo e più importante motivo: perché in ognuno di questi spettatori si possa svegliare (o risvegliare) una coscienza che dica quanto è assolutamente spaventoso ogni guerra fatta così (praticamente tutte).
Se un film può farci arrabbiare e commuovere facendoci vedere un mondo disastrato dove contano soltanto gli interessi e i soldi (sinonimi di guerra), dove la gente comune viene mandata al macello per accontentare le aziende di armi o di petrolio; allora ben venga questo tipo di cinema, perché è questo di cui abbiamo bisogno. Se quel movimento che stracciava le cartoline di precetto in piazza e che contava milioni di persone non è riuscito a fermare una catastrofe, così come non ci sono riuscite tutte le marce della pace che hanno attraversato le strade di tante città meno di due anni fa (oggi è come ieri), ciò non vuol dire che dobbiamo smettere di crederci, anzi è un nostro dovere. Così come è dovere del cinema, della musica e della cultura aiutare a far sì che la gente almeno sappia quanto è spaventoso quello che può succedere e che sta succedendo.
Oggi, un cinema arrabbiato, come era quello degli anni settanta in America lo devi cercare col lumicino (un po' di Gran Bretagna, un po' d'Irlanda, gran parte del cinema dell'Europa dell'Est, tanto cinema centro e sudamericano e Michael Moore). Eppure i tempi sono assolutamente adatti per un cinema del genere (sveglia Italia!). Speriamo che riproporre questi film possa dare una mano alla rinascita di un certo tipo di linguaggio, necessario come tutti gli altri. "Let the sunshine in".

Renato Massaccesi

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