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Gran Torino
E intanto Clint Eastwood non sbaglia un film.
Prendendo spunto dal titolo di un vecchio album di Luca Carboni, dopo aver visto l’ultimo film di Eastwood, la prima considerazione che viene spontanea è proprio questa. Clint Eastwood non sbaglia un film, per lo meno da sei anni a questa parte e cioè a partire da quel "Mystic River" del 2003 a cui hanno fatto seguito ben cinque film (segno peraltro di una notevole prolificità, quasi un film l’anno) tutti caratterizzati da storie drammatiche che hanno lo scopo di mettere in risalto i lati più profondi – ed oscuri - dell’animo umano esponendo, ma in maniera soffice e senza forzature, un messaggio di una grande forza morale.
Ed è quello che accade anche in "Gran Torino", forse in maniera ancora più preponderante di quanto non sia accaduto nelle precedenti opere.
"Gran Torino" è un modello sportivo di un auto prodotto dalla Ford nei primi anni ’70 che Walt Kowalski tiene gelosamente dentro il suo garage da più di trent’anni senza mai usarla e pulendola regolarmente e mantenendola in perfetta efficienza. L’auto è a tutti gli effetti l’alter ego di Walt con il quale condivide l’esistenza.
Anziani e fuori mercato, vivono in solitudine – Walt, dopo la morte della moglie, si concede al massimo una bevuta al bar e trascorre i suoi pomeriggi sulla veranda assieme alla vecchia cagnetta a stappare lattine di birra (da manuale l’inquadratura di spalle di Walt, con il cane subito dopo e l’auto sullo sfondo) -; entrambi vivono in un forzato esilio fatto di brusche risposte ai vicini e pessimi rapporti con i figli, il mondo per Walt è solo un catino colmo di "topi di fogna" da criticare. Questo triste equilibrio fatto di sigarette fumate come caramelle e prati tagliati con la meticolosità di un certosino viene improvvisamente, ma forse inevitabilmente, infranto dal mondo che gli ruota intorno che come una marea neanche l’arcigno carattere di Walt riesce ad arrestare.
Girato a Detroit dove un coacervo di razze (messicani, asiatici, le vecchie generazioni di emigranti come italiani, irlandesi e polacchi) si unisce e si combatte, si dileggia dalle poltrone di un barbiere, con "Gran Torino" – scritto da Dave Johannson e Nick Schenk – il regista e attore americano torna alle tematiche della colpa e del perdono - come in "Mystic River" – e dell’espiazione, disegnando il conflitto tra la morale religiosa ed una concezione del mondo più pragmatica, contrassegnata da chi ha combattuto una guerra con la convinzione di essere stato dalla parte giusta, e fornendoci uno dei finali più belli e struggenti degli ultimi anni, che sembra concepito dai versetti del Vangelo. Eastwood legge, esaltandone le peculiarità, la sceneggiatura equilibrata che fa di Walt (da lui stesso interpretato) il perno centrale della narrazione. Un personaggio che se da una parte sputa battute come un cowboy di Sam Peckinpack, dall’altra è l’incarnazione dell’"homo faber" americano, uno che "con il cacciavite in mano fa miracoli".
Ed è probabilmente questa estrema concretezza che lo condurrà all’ultimo capitale sacrificio grazie al quale consentirà un futuro a chi ha dato un senso ad una vita vissuta nel rimorso di qualcosa di irraccontabile.
La frase: "Quanti topi di fogna possono starci in una stanza?".
Daniele Sesti
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