Grace di Monaco
Abbandonata Hollywood per rincorrere l’amore e il sogno di diventare principessa, Grace Kelly conduce una vita infelice, costretta in un “dietro le quinte” che non le si addice. Nel 1962, anno di enormi tensioni politico-finanziarie tra la Francia e il Principato di Monaco, sarà lei stessa a ricoprire un ruolo di primo piano nel ristabilire l’equilibrio tra le due nazioni, interpretando la sua ultima, grande parte: quella di principessa devota alla propria famiglia e al proprio popolo.
Olivier Dahan, apprezzato regista francese, ha realizzato il secondo film della sua carriera ispirato alla vita di una grande donna del passato: prima di Grace Kelly è stato il turno di Edith Piaf nel 2007, grande successo che fruttò un premio Oscar alla sua eccezionale protagonista Marion Cotillard. A differenza del film precedente, che accompagnava la Piaf dalla sua nascita alla sua morte, qui l’arco temporale ricopre pochi mesi, concentrandosi in quell’estate del 1962 in cui i riflettori del mondo erano puntati sulla principessa Grace. Grazie a questa scelta, i 103 minuti della pellicola hanno la possibilità di approfondire in modo efficace tutte le dinamiche storiche ed emotive che hanno coinvolto (o che si suppone abbiano coinvolto) la protagonista; evitando la formula del biopic, in questo caso, il lavoro aumenta d’intensità, e Dahan riesce comunque a far sentire il la nostalgia e il peso del passato sulle spalle di Grace.
È un film ambizioso, che spesso scivola in dialoghi e riflessioni sull’amore che gli inglesi definirebbero cheesy, ma che riesce a modo suo ad essere un sentito omaggio a un’icona del secolo scorso, anche se per niente appezzato dagli eredi di Grace Kelly. I regnanti di Monaco, infatti, tradizionalmente presenti al festival di Cannes, si sono rifiutati di partecipare alla cerimonia d’apertura in cui verrà proiettato il film per ribadire la loro distanza da una pellicola che, a loro dire, tratta l’intera vicenda in modo disonesto ed eccessivamente romanzato, “inutile e glamour”. Tuttavia, tralasciando giustificazioni alla “licenza poetica”, che spesso tende ad adattamenti à l’eau de roses, qui tutto il minestrone di estetica, romanticherie e buonismo ha uno scopo ben preciso che, in fin dei conti, raggiunge: raccontare l’estremo sacrificio di una donna che antepone il bene della sua famiglia (e della sua nazione) alla propria vera felicità. Il fine, in questo caso, giustifica i mezzi. E il discorso finale di Grace, di fronte al suo popolo e ai capi di Stato di mezza Europa, ne è la prova.
Un copione che non brilla certo per originalità viene dinamizzato da una messa in scena elegantissima e ricca di omaggi (soprattutto a Hitchcock), spesso eccessivamente barocca ma in tono con quello che il film vuole essere.
La cosa più straordinaria è Nicole Kidman, così calata nella parte che a tratti si ha l’impressione di vedere proprio Grace Kelly sullo schermo. A sostenerla, attori del calibro di Tim Roth, Frank Langella, Milo Ventimiglia e Paz Vega.
Un consiglio: chi ne ha la possibilità guardi “Grace di Monaco” in lingua originale per godere appieno della performance della Kidman.
La frase:
"Non so come potrò continuare a vivere in questo posto dove non posso essere me stessa".
a cura di Luca Renucci
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