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Good Kill







Tommy è un addestrato pilota di aerei da guerra. Oggi, con la diffusione dei droni, il suo talento e la sua mira vengono compressi in una piccola stanza che telecomanda le armi a una distanza come quella che separa il Nevada dall’Afghanistan. Non volare più, per Tommy, equivale a non vivere più. La sua depressione, sfogata nell’alcol e all’interno della famiglia, si intensifica con l’affiorare di dubbi sull’etica delle proprie azioni.
Andrew Niccol non è certo un regista che brilla per originalità, avendo realizzato per lo più film ipercommmerciali, come il recente “In Time”. Fin dai tempi del suo ormai classico “Gattaca”, Niccol è ossessionatamente attratto dalla fantascienza, da possibili società del futuro. E in “Good Kill”, mentre l’avvenire sembra offrire solo l’orrore di una guerra fredda e asettica, Niccol decide di parlarci del presente tramite un tema che gli è particolarmente caro: la tecnologia. Accantonate le sue tipiche speculazioni sul mondo di domani, il regista si prende una pausa per riflettere sugli effetti che il progresso ha avuto sull’oggi.
Tommy, il protagonista col volto di Ethan Hawke, è l’impersonificazione dell’uomo che viene messo da parte in un mondo nuovo, avviato verso la freddezza del dominio delle macchine. In questa nuova dimensione Tommy non riesce a stare, non sente più alcun brivido di vita come quando volava davvero per uccidere i nemici.
Adesso, rinchiuso nella sua scatola di metallo, non ha smesso di ammazzare, ma è costretto a guardare le proprie azioni con un totale distacco e quindi, inevitabilmente, a giudicarle. Privato di qualsiasi corpo a corpo o eccitamento, non c’è più alcun velo che possa oscurargli la vista. Per la prima volta vede veramente le vittime, compresi donne e bambini, che nel giro di pochi secondi moriranno perché lui avrà premuto un pulsante. E inizia a porsi quelle domande che nessun soldato, per “funzionare” in modo efficiente, dovrebbe porsi. Non riesce ad essere un robot senza capacità critiche verso le politiche di propaganda, come i suoi colleghi, e nemmeno sa rassegnarsi come il suo colonnello. Quest’ultimo gli spiega che la guerra è un circolo vizioso che, per il momento, è impossibile rompere: chi smetterà di attaccare verrà sconfitto. E anche la vita di Tommy, proprio come il conflitto, sembra non avere una via d’uscita, sospesa tra la necessità di tornare a volare e l’illusione di fare la cosa giusta.
Tutti questi stimoli offerti da “Good Kill” potrebbero risultare potentissimi, ma purtroppo il film resta imprigionato in una forma troppo convenzionale perché possa, come nel sogno del suo protagonista, spiegare le ali e prendere il volo. Tutte le riflessioni offerte dalla sceneggiatura spingono contro un muro di dinamiche banali per emergere, e quando ci riescono risultano inevitabilmente indebolite da questo filtro eccessivamente “all’americana”. Anche il taglio registico non osa mai fino in fondo, facendo sì intravedere tutto il potenziale della storia di Tommy, ma senza mai riuscire a sviscerarlo.
È un vero peccato, perché quello che avrebbe potuto essere un gran bel film si mantiene, per timore o per comodità, in quei binari della convenzione che lo fanno precipitare, proprio nel finale, nella peggiore delle banalità.

La frase:
"La guerra adesso è uno sparatutto a distanza".

a cura di Luca Renucci

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