Garage
Una piccola comunità, dove i criteri di convivenza civile adottati anche per chi è “diverso” sono gli stessi che valgono in generale, ma solo quando al negativo, cioè allo scopo di reprimere. Sta in questo sbilanciamento il nucleo drammatico di ‘Garage’. Il protagonista è infatti un essere puro (tenero l’approccio che ha con un cavallo), mite, sensibile e sereno. Ritardato e trattato soprattutto come tale. Dall’ex compagno di scuola che lo fa lavorare nella sua stazione di servizio - come gesto di altruismo che in realtà risponde a esigenze di comodo (in più, in una delle emblematiche scene iniziali l’uno parla con entusiasmo dei semplici miglioramenti pratici che vuole apportare al posto e l’altro neanche lo ascolta, impegnato al telefono cellulare) - fino al vigliacco spirito di sopraffazione di uno degli abituali e maneschi frequentatori del pub, che da lui pretende sigarette. Mente semplice che asseconda sempre l’interlocutore, l’uomo conduce una vita isolata fuori da un placido paesino di campagna nella ripetizione dei soliti gesti quotidiani, innamorato vanamente, e comincia ad instaurare un’amicizia con il nuovo collega adolescente. Ciononostante, il clima di degrado morale e di paura latente - da cui, ci dice il film, ormai non è esente nemmeno la provincia contadina - fa presto a renderlo vittima della cultura del sospetto. All’opera seconda (vincitrice del 25° Torino Film Festival), Lenny Abrahamson costruisce il proprio amaro apologo attraverso ampi silenzi, tempi dilatati e pochi eventi, affidandosi all’apprezzabile interpretazione di Pat Shortt, attore di provenienza teatrale - noto in patria - attivo anche in serie televisive. Coerentemente con un approccio riflessivo e non urlato alla problematica, il loro personaggio sacrificale decide di andarsene di nascosto, in fondo allo stesso modo in cui gli altri lo hanno sempre tenuto.

La frase: ""pensavo a quello che ho nella testa: niente"".

Federico Raponi

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