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Forse Dio é malato
La curiosità di spingersi nella visione di “Forse Dio è malato”, realizzato grazie al contributo del Ministero Affari Esteri DGCS attraverso un progetto di informazione e sensibilizzazione curato dalle ONG Movimondo e Dokita, non è stimolata tanto dal nome del regista Franco Brogi Taviani, fratello di Paolo e Vittorio, che torna dietro la macchina da presa a quasi due decenni di distanza da “Modì-Vita di Amedeo Modigliani” (1990), quanto da quello dell’autore dell’omonimo libro da cui prende le mosse: “tale” Walter Veltroni.
Bisogna precisare immediatamente, però, che è con grande libertà che il regista s’ispira al testo letterario-diario di viaggio scritto dall’onorevole romano, il cui titolo proviene da quanto affermato da un sacerdote dinanzi agli orrori cui sono quotidianamente sottoposti i ragazzini africani.
Perché è di un documentario sull’Africa Sub-Sahariana che stiamo parlando, un’esplorazione su celluloide attraverso il Mozambico, l’Angola, l’Uganda, il Senegal, il Camerun e il sud del Paese in generale, tra storie di abbandono in tenera età, bambini accusati di stregoneria, diaspora dell’emigrazione, donne sieropositive che lottano contro la malattia, miseria regnante e, soprattutto, la costante presenza di un’ignoranza forse naturale, forse semplicemente imposta, la quale finisce perfino per essere alla base di squallidi atti di pedofilia.
Un mix di immagini documentaristiche ed altre di finzione che s’intrecciano senza soluzione di continuità, al solo fine di testimoniare per l’ennesima volta la tragica situazione di una fetta del globo in cui una visione sullo schermo di “Miracolo a Milano” assume per i suoi poveri abitanti le fattezze di un emozionante evento ai confini della realtà, in quanto il loro obiettivo primario non sembra essere la felicità, ma la sopravvivenza.
Un mix che, infarcito anche con momenti cantati, finisce però per fare i conti con la sua natura di prodotto atto alla sensibilizzazione nei confronti di eterni drammi che spesso, dalle nostre parti e non solo, si fa finta di non conoscere, rischiando di apparire nelle vesti di spot pubblicitario di circa 90 minuti.
E trovando il giusto giudizio critico, paradossalmente, proprio nelle parole di presentazione di chi lo ha concepito: “Ho pensato ad un film che guardi strettamente al presente e non si arrampichi sugli specchi di un futuro a tutti sconosciuto, un film a suo modo didascalico, ma dotato di una cadenza drammaturgia e poetica – quella dell’alternanza tra storie e testimonianze, tra documentario e ricostruzione filmica – scandita nelle canzoni che ‘poeticamente’, appunto, interpuntano e amalgamano la diversa e cruda materia narrativa”.
La frase: "Oggi non ho tempo per il futuro, ora voglio solo desiderare".
Francesco Lomuscio
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