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Family game
Come già detto altre volte, spiace sempre parlare in termini non entusiastici di un film italiano, soprattutto se prodotto con pochi mezzi e tanta buona volontà, ma può essere questa una giustificazione per uno spettatore che paga un biglietto del cinema dai circa cinque euro in su?
Come ben si può già intuire dal titolo, il secondo film di Alfredo Arciero (l’esordio fu nel ’98 con Dio c’è) si concentra su di un tema abbastanza comune alle pellicole nostrane: la famiglia. E indovinate come? Ma agiata, borghese, senza particolari difficoltà economiche, modello perfetto per far sì che ci si possa concentrare sul benessere interiore di ognuno dei suoi personaggi. Papà medico arrabbiato adultero con la moglie del direttore della clinica, figlia adolescente tutta cuffie e musica che si sbaciucchia con un’amica, figlio dalla mattina alla sera davanti al pc e mamma concentrata sul prato di casa perché per il resto non c’è di che stare allegri. Equilibrio da pessimistica famiglia mulino bianco che viene turbato quando viene a vivere con loro lo zio ex tossico dipendente che odia restare chiuso a chiave in una stanza. E’ però proprio lui quello che con una parola buona di lì ed un sorriso di qua riesce a portare un minimo di armonia. A patto che non accadano malintesi...
Se il titolo è in inglese è perché forte (nelle intenzioni) la volontà di tracciare un parallelo tra i giochi per il computer di gestione familiare (come The sims) e la realtà stessa. La famiglia è fatta di mille piccoli dettagli, non una formula contenente sempre le stesse varianti. Un discorso generale condivisibile, ma che non trova un giusto sfogo in questo film. Non solo, a parte la troppo esplicativa voce fuori campo che sintetizza ogni avvenimento in una morale, nulla c’è (visivamente parlando) che cerchi di rimarcare questa sorta di analogia con il videogame. Falsi attestati, genitori violenti, scappatelle, fratelli drogati e baci lesbici marinando la scuola... Non che si parli di situazioni che non accadono, ma trovare tutto assieme è caso più unico che raro. Di fronte ad un così alto numero di situazioni al limite, come si può pensare che questo amaro sguardo sia radicato nella realtà?
Piuttosto staticamente la sceneggiatura avanza senza sussulti verso quel finale che seppur chiarisca perché il papà non sorridesse neanche in foto non ci spiega perché il fratello nonostante non si droghi sembri sempre su di giri.
La frase: "Cos’è questa faccia? Sembri uscito da un trapianto di fegato!".
Andrea D’Addio
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