En la ciudad de Sylvia
Scritto e diretto dal regista spagnolo José Luis Guerìn, il film racconta di un uomo che torna a Strasburgo per rivedere una ragazza conosciuta sei anni prima in un bar. Non sa dove abita, sa solo che si chiama Sylvia, e che ha un grande desiderio di rivederla. Così torna nel posto dove si sono conosciuti nella speranza che lei passi di li.
Due cose caratterizzano questo film: Strasburgo e le donne.
La capitale europea viene fotografata dal regista nel suo aspetto più intimo: attardandosi più del dovuto nei vicoli che il protagonista percorre, la telecamera indugia sui passanti intenti a fare le proprie cose. Sono quasi tutti giovani, sempre di corsa, le persone dopo i quaranta si contano sulle dita delle mani. La sensazione è che la città sia frenetica, esuberante, frizzante, quasi come il ricordo di Sylvia nel protagonista, o almeno così ce la si immagina: accomunare la città al personaggio cercato sembra quasi inevitabile.
Attraverso gli occhi del protagonista, invece, il regista espone un’ampia panoramica dell’universo femminile, un catalogo di esponenti del gentil sesso analizzate dal giovane in cerca del suo sogno. Xavier Lafitte interpreta il personaggio principale, di cui non si sa il nome, ne da dove venga. Seduto ad un tavolino fuori dal Conservatorio, frequentato un tempo da Sylvia, con in mano un blocco da disegno e una matita, studia e analizza le ragazze che ha davanti, con una curiosità e un’attenzione che a volte paiono maniacali. Nei suoi fogli bianchi prendono vita le movenze, i gesti, ma mai i visi o lo sguardo, come se in ognuna di loro vedesse qualcosa di Sylvia, ma nessuna di loro è lei.
Le sue speranze si accendono quando il suo sguardo si posa accidentalmente sul personaggio interpretato da Pilar López de Ayala.
Decide di seguirla in quello che sembra quasi un pedinamento, per scoprire se è lei, Sylvia.
Questo è quello che vien fuori dopo aver metabolizzato e sviscerato la pellicola con tutta l’arguzia di cui siamo dotati, ma a prima vista ciò che si nota è che la narrazione è quasi esclusivamente affidata alla mimica degli attori, i pochi dialoghi sono quasi tutti verso la fine della pellicola, sta quindi allo spettatore riuscire a capire il perché quell’uomo con lo sguardo trasognato, sia li a guardare intensamente tutte le ragazze che ha davanti, e poi decide di seguirne una. Il dubbio è che potrebbe sembrare un maniaco o un serial killer.
E l’espressione dell’attore certo non aiuta.
Il regista poi, ha la tendenza a soffermarsi troppo con la telecamera su un soggetto, che sia il protagonista seduto immobile sul letto all’inizio del film (sequenza che dura più di due minuti!), o un vicolo, una strada, una piazza percorsi. A stare attenti al particolare poi, si nota che alcuni personaggi, riappaiono improvvisamente e senza alcun motivo apparente in più scene, e se per alcuni si può trovare un significato nascosto, per altri invece sembra più una carenza di attori. Inoltre, durante il pedinamento non si capisce come sia possibile che prendendo per sbaglio una strada opposta a quella di lei, lui riesca a trovarla.
Nel complesso, si nota il tentativo di fare un film poetico sulla ricerca, sul miraggio di un desiderio, di un sogno che attanaglia il cuore, ma alla fine il risultato non è molto soddisfacente, il regista si dilunga troppo, non è lineare e la sceneggiatura presenta troppe lacune.

La frase: "No, non credo, però ci penserò!
(pronunciata da un personaggio non utile alla storia, ma con un enfasi che la fa risaltare su tutto il film!)".

Monica Cabras

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