Django
La voce del compianto Rocky Roberts scandisce la bellissima "Django" sull'affascinante immagine di un cupo cowboy che, per mezzo di una corda, trascina una bara su aride e desolate distese.
L'immagine iniziale di "Django", sicuramente il più famoso lungometraggio western firmato dal grande Sergio Corbucci, è di quelle che difficilmente si dimenticano.
Avviato nel 1965 poco prima di Natale, ma terminato soltanto dopo la stesura di una nuova scaletta a firma del fratello del regista Bruno e l'entrata in scena di una co-produzione spagnola, è il film che lanciò come star internazionale Franco Nero, il quale veste i panni del protagonista del titolo (proveniente dal musicista Django Reinhardt, a causa della passione di Sergio Corbucci per il jazz), reduce della Guerra Civile che, giunto in un villaggio ai confini del Messico, si mette contro le due fazioni rivali che spadroneggiano: una banda di messicani capitanata dal sadico generale Hugo Rodriguez, interpretato da josé Bódalo ("Professionisti per un massacro"), ed un'altra composta da uomini incappucciati, sudisti del Ku Klux Klan guidati dal maggiore Jackson, razzista con le fattezze di Eduardo Fajardo ("Incubo sulla città contaminata"). E, a partire dagli inconfondibili occhi di ghiaccio del protagonista, sono evidenti i rimandi al pistolero eastwoodiano di "Per un pugno di dollari" (1964), ma, a differenza di Sergio Leone, Corbucci spinge maggiormente sul pedale della violenza, mostrandoci perfino l'impressionante sequenza dell'orecchio mozzato che avrebbe poi ispirato uno dei celebri momenti de "Le iene" (1992) di Quentin Tarantino.
Il risultato finale, quindi, impreziosito dalle ottime musiche del maestro Luis Enriquez Bacalov ("Il postino") e dalla bella fotografia di quell'Enzo Barboni che, sotto pseudonimo E.B. Clucher, avrebbe poi diretto "Lo chiamavano Trinità" (1970), è un prodotto il cui maggior pregio è individuabile nell'atmosfera funerea quasi horror che lo attraversa.
Fino allo splendido scontro finale nel cimitero di Tombstone, il quale rientra tra i momenti che hanno sicuramente contribuito a trasformare in cult un titolo che, nonostante una struttura generale non sempre efficace, ha finito per generare una marea d'imitazioni ed un dimenticabilissimo sequel del 1987: "Django 2-Il grande ritorno" di Nello Rossati.

La frase: "Il mio nome è Django e finché starai con me nessuno ti farà del male".

Francesco Lomuscio

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