Disoccupato in affitto
Chissà se lo scrittore Charles Dickens, cui dobbiamo il termine uomo-sandwich, avrebbe mai pensato che, nell’estate del 2010, Pietro Mereu se ne sarebbe andato in giro in cerca di un impiego per nove città italiane, seguìto dalla camera del regista Luca Merloni, portando addosso un cartello con scritto “disoccupato in affitto”.
Impresa tanto semplice quanto geniale che, ironica provocazione, ma anche sfida con se stessi, intende fornire un’insolita inchiesta sul triste panorama d’inizio XXI secolo relativo al mondo del lavoro nostrano, raccogliendo le opinioni di un innumerevole numero di sconosciuti a passeggio; tra i quali, però, troviamo anche la conduttrice televisiva Paola Saluzzi e il critico cinematografico Tatti Sanguineti.
Insolita inchiesta che, senza dimenticare gli artisti di strada e coinvolgendo perfino un tizio che improvvisa un rap, lascia emergere il tutt’altro che rassicurante quadro di un paese non solo in preda al qualunquismo aberrante e all’orgoglio della raccomandazione, ma in cui i poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.
Un paese oligarchico che sta affondando e in cui molti giovani continuano a studiare pur essendo consapevoli di dover emigrare all’estero per avere un mestiere dignitoso; mentre da un lato abbiamo chi vive solo grazie al supporto della Caritas e dall’altro chi sostiene che sia la gente a non voler lavorare.
Anche se, tra il protagonista che si domanda chi vorrebbe una storia d’amore con qualcuno che fa fatica ad offrire una cena e disoccupati destinati a rimanere tali perché non sembra più liberarsi il posto di chi dovrebbe andare in pensione, è purtroppo facile pensare che la più grande verità venga sfoderata dall’individuo secondo cui l’Italia è uno stato nel quale non c’è posto per le persone oneste.
Nel corso di circa settantacinque minuti di visione che, efficacemente accompagnati dalle musiche di The Niro alias Davide Combusti, regalano non poche occasioni per sprofondare in sane risate; suscitando, allo stesso tempo, amare riflessioni sulla nazione in cui, nel modernissimo terzo millennio, chi ha superato i cinquant’anni (ma anche i trenta e i quaranta) difficilmente viene preso a lavorare.
Con l’ulteriore merito di portare alla luce tanti dettagli di cui, a quanto pare, non vi è traccia all’interno dei telegiornali quotidiani, impegnati soltanto a snocciolare dati e statistiche in continua variazione.
La frase:
"E’ la fine del mondo, tutte le speranze di quando eravamo giovani so’ finite pe’ tutti".
a cura di Francesco Lomuscio
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