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Die

1976: un uomo si spara in testa davanti agli occhi del figlio piccolo.
Inizia così il lungometraggio d’esordio del canadese Dominic James, co-produzione che vede coinvolta anche l’Italia, tanto da annoverare tra gli interpreti la bondiana Caterina Murino, qui calata in un ruolo d’ispettrice di polizia non troppo distante, in fin dei conti, dalla Clarice Starling che permise a Jodie Foster di guadagnarsi il premio Oscar ne "Il silenzio degli innocenti" (1991) di Jonathan Demme.
A partire dalle prime sequenze, però, è chiaro che, più che imitare le vicende cannibalistiche di Hannibal Lecter, l’intenzione della pellicola sia quella di riallacciarsi alla moda del perverso gioco enigmistico ad eliminazione umana lanciato su celluloide dalla gettonatissima saga di "Saw".
Non a caso, con un cast comprendente, tra gli altri, il Fabio Fulco di "Vita smeralda" (2006) e il grandissimo Elias Koteas di "Let me in" (2010), i circa 87 minuti di visione si basano su sei personaggi che, improvvisamente ritrovatisi prigionieri in un complesso sistema di celle, finiscono nelle grinfie di un misterioso individuo che li costringe, a turno, a decidere per il destino di uno degli altri attraverso un gioco basato sul lancio di un dado.
E perfino la rivelazione finale ricorda non poco quelle che spingono il torturatore dalla faccia di Tobin Bell a scegliere le proprie vittime, anche se, in questo caso, nonostante un uomo annegato vivo all’interno di una cabina di vetro e una donna dissanguata, la truculenza è assente e, fortunatamente, non si esagera in sadismo.
Mentre il viraggio ocra della fotografia di Nicolas Bolduc e Giulio Pietromarchi enfatizza una certa depressione che attraversa l’intera vicenda, in parte accostabile anche a "Cube - Il cubo" (1997) di Vincenzo Natali (si pensi all’analogia tra il dado e il cubo) e che, seppur quasi tutta costruita sul già visto, non annoia affatto, impreziosita da una buona recitazione e da una curata confezione comprendente una regia degna di nota.
Tanto da spingerci a chiederci per quale motivo, per concepire a dovere un prodotto nostrano d’imitazione internazionale, sembra essere ormai necessaria l’aria del set estero, visto che la maggior parte delle volte che si tenta di realizzarne uno su suolo italiano, vengono fuori solo mediocrità su celluloide (si pensi a "Visions" di Luigi Cecinelli).

La frase:
"Io ho più paura di vivere che di morire".

a cura di Francesco Lomuscio

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