Deadpool
Non serve essere un supereroe per trovare una ragazza, quella giusta tirerà fuori il supereroe che è in te.
Anche se, creato da Fabian Nicieza e Rob Liefeld ed incarnato sul grande schermo dallo stesso Ryan Reynolds che già gli concesse anima e corpo in “X-Men: Le origini - Wolverine” (2009), l’ex membro delle forze speciali Wade Wilson aka Deadpool – detto anche il “mercenario chiacchierone” – è, in verità, più un anti-eroe che un vero e proprio supereroe.
Un anti-eroe generato dall’esperimento illegale che gli ha donato poteri di guarigione accelerata e che, sfigurato e fortemente deciso a dare la caccia ad Ajax alias Ed Skrein, uomo che gli ha quasi distrutto la vita, si considera, più che altro, un cattivo pagato per pestare tipi peggiori di lui.
Un anti-eroe che, però, pur trovandosi ad avere a che fare con il cancro e possedendo un lato tragico non distante da quello che caratterizzò il Peyton Westlake/Darkman ideato da Sam Raimi, racchiude nel linguaggio sboccato e del cinico senso dell’umorismo gli elementi che – già a partire dall’apertura accompagnata da “Angel of the morning” riletta da Juice Newton – provvedono a farlo differire in maniera evidente dalla serietà degli altri colleghi delle avventure a fumetti Marvel.
Tanto che, man mano che lo vediamo contornato da un amico barista, una anziana coinquilina non vedente e dai colleghi di strisce disegnate Testata Mutante Negasonica e Colosso, non risulta difficile accomunarlo al Vendicatore tossico della trashissima saga Troma “The toxic avenger”, oltretutto complici un certo (retro) gusto horror generale e la presenza di non indifferenti annaffiate di splatter nelle sequenze di scontro.
Aspetti che, in mezzo a tanto citazionismo cinefilo verbale (da “127 ore” a “Blade 2”) e divertenti frecciatine rivolte al gruppo musicale rap metal dei Limp Bizkit, al Liam Neeson della trilogia “Taken” e alle doti attoriali dello stesso Reynolds, contribuiscono, almeno, a far distaccare la oltre ora e quaranta di visione dal look di lungo spot pubblicitario per action figure che ha penalizzato diverse produzioni marveliane d’inizio terzo millennio, a cominciare da “The Avengers” (2012) di Joss Whedon.
Oltre ora e quaranta visione che, con immancabile apparizione per il genio Stan Lee, l’effettista Tim Miller – qui al suo primo lungometraggio da regista – sviluppa su una struttura tutt’altro che classica volta ad alternare presente e passato, ulteriormente arricchita da una colonna sonora di vecchi successi spazianti da “Mr. Sandman” delle Chordettes a “Hit the road Jack” di Ray Charles (ma non dimentichiamo neppure la scena di sesso sulle note di “Calendar girl” di Neil Sedaka); mentre la Morena Baccarin di “Spy” (2015) veste i panni di Vanessa, dolce metà del protagonista, e la Gina Carrano di “Knockout – Resa dei conti” (2011) quelli della statuaria e muscolosa Angel Dust, braccio destro del suo avversario.
Ma, pur trovandoci dinanzi ad una non bocciabile operazione piuttosto fuori dagli schemi classici del cinecomic e, di conseguenza, più originale del solito, non è difficile pensare che un cineasta provvisto di maggiore tocco personale avrebbe trasformato in un capolavoro quello che, con un’ultima esilarante situazione posta al termine dei titoli di coda, non manca di rivelarsi a tratti altalenante e ripetitivo, oltre che eccessivamente propenso a ricorrere a battutine che ricordano la poco esaltante maniera di far ridere di Jason Friedberg e Aaron Seltzer (responsabili di “3ciento – Chi l’ha duro... la vince!” e “Disaster movie”, per intenderci).
Pensiamo, per esempio, al Matthew Vaughn autore di “Kick-Ass” (2010) e di “Kingsman: Secret service” (2014).
La frase:
"Molte storie d’amore cominciano con un omicidio e questa è proprio una storia d’amore".
a cura di Francesco Lomuscio
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