Storie: Code Inconnu
Selezionato al Festival di Cannes dello scorso anno, l'ultimo film di Michael Haneke ha tardato ad uscire in Italia; e dopo averlo visto se ne capisce facilmente il perché.
È infatti piuttosto difficile ricostruire il filo delle storie dei personaggi che intervengono sullo schermo. Il montaggio è talmente frammentato, al limite dell'accettabile, da renderne difficilissima, oltre che noiosa, la comprensione.
Anne (Juliette Binoche) giovane attrice sta per sfondare nel cinema; il suo compagno Georges (Thierry Neuvic) è un fotoreporter di guerra, concentrato sul suo lavoro tanto da non riuscire a farsi coinvolgere dalla vita che lo circonda; il padre di Georges è un agricoltore e vive in una fattoria con il figlio minore Jean, che stufo di quella vita difficile e monotona scappa non si sa dove.
Ci sono anche frammenti di altre vite; quella della rumena Maria che mendica nelle strade di Parigi e trovata senza documenti viene rimpatriata; e la storia di Amadou, giovane di colore, insegnante di musica in una scuola di sordomuti e di suo padre, tassista a Parigi, alle prese entrambi con un razzismo subdolo e malcelato.
In un mescolarsi di lingue, tra cui anche rumeno e bambara (dialetto del Malì), e il linguaggio dei gesti dei sordomuti, si sviluppano a pezzi e bocconi eventi non-eventi delle vite dei personaggi, che spesso si incrociano ma senza far mai caso l'uno all'altro.
Il regista Haneke è un habituè di Cannes e, a volte con estremismo, ha portato nelle sue pellicole il tema prediletto: la violenza. Ricordiamo infatti "Funny game", l'insostenibile viaggio nella violenza di due teppisti e delle sevizie e torture da loro inflitte ad una innocua famigliola in vacanza, che sollevò nel 1997 un vespaio di polemiche.
In "Storie" il cui titolo originale è "Code inconnu" - con riferimento al codice di accesso dei portoni dei palazzi parigini - tutta l'energia, pur ambiguamente morale del film precedente, sembra essersi completamente perduta. Pochi dialoghi, lunghissimi piani sequenza, con una macchina da presa spesso ferma in una unica inquadratura; scene tagliate tranciando a volte persino le parole dei personaggi. Il regista resta volutamente su una rappresentazione estremamente minimalista della vita quotidiana, fatta di camicie stirate davanti alla tv, interminabili discussioni sui figli e i loro problemi a scuola, e lunghi, infiniti silenzi.
Il filo degli eventi resta molto labile e non si trasforma mai in qualcosa di coerente e compiuto, e naturalmente più coinvolgente; rimane fermo e immobilizzato come una rappresentazione vivente di un presepio o di un quadro. L'estenuante musica di tamburi e percussioni finale vorrebbe condurci ad una conclusione di un percorso chiaro solamente al regista; il film termina come inizia, con la macchina da presa ferma su un bimbo sordomuto che tenta di far capire ai suoi compagni cosa sta mimando: ma faticano a comprenderlo, come faticherà il pubblico.
Valeria Chiari
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