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Chiamami Salomé
Estate, notte di luna piena, una fabbrica abbandonata al cui interno spicca una scenografia come clonata da un "peplum" Anni Sessanta.
Qui il regista Claudio Sestieri, già autore di "Dolce assenza" (1986) e "Barocco" (1991), nonché di un'infinità di prodotti destinati al piccolo schermo, rivisita l'atto unico di Oscar Wilde "Salomé", appositamente ripensato per il pubblico del terzo millennio in un'operazione su celluloide analoga, in un certo senso, a lavori come "Romeo+Giulietta" (1996) di Baz Luhrmann e "Hamlet 2000" (2000) di Michael Almereyda.
Quindi, Erode, cui concede anima e corpo il grandissimo Ernesto Mahieux ("L’imbalsamatore"), altro non diventa che un vecchio boss della criminalità organizzata che comincia a perdere il potere e la voglia di vivere, pur nutrendo una passione incontenibile per l’adolescente Salomé, con le fattezze di Carolina Felline ("B.B. e il cormorano"), figlia di primo letto di sua moglie Erodiade, interpretata da Caterina Vertova ("Natale a Miami").
Se poi aggiungiamo il delirante Giovanni, con il volto di un urlante e barbuto Elio Germano ("Mio fratello è figlio unico"), figlio di papà rapito dall’uomo e del quale la ragazza s'invaghisce invano, è completo il quadro dell’ennesimo tentativo di uscire dai banali clichè delle due camere e cucina del "nuovo" cinema tricolore, immerso in una cupa e lussuriosa atmosfera, ma non privo d’ironia e penalizzato esclusivamente dalla dimenticabile prova dei non ancora maturi giovani membri del cast, a partire dalla Felline.
Un tentativo sicuramente coraggioso che, impreziosito sia dalle belle scenografie firmate dal mai troppo osannato Massimo Antonello Geleng ("Non ho sonno"), che dall’ottimo lavoro svolto al trucco da Bruno Ruas ("Il ritorno") e Alessandro Zappaterra (a quest'ultimo dobbiamo, tra l'altro, la notevole testa mozzata), trova il suo principale punto di forza nelle affascinanti immagini, finendo per apparire paradossalmente più vicino al genere di quanto vi si voglia allontanare.
A fine visione, cui si arriva tutt'altro che annoiati, viene quasi voglia di ripensare a certe assurde (ma originali) contaminazioni su pellicola nostrane che, bistrattate a suo tempo dalla critica, vengono oggi ricordate con grande nostalgia di un tipo di cinema del rischio che, purtroppo, non esiste più.
Quindi, sarà ancora una volta il tempo a decidere se il lungometraggio di Sestieri, forse avanti rispetto ai binari classici della produzione italiana attuale, è da considerarsi prodotto innovativo o pretenzioso lavoro intellettualoide cui piacerebbe solo la definizione "d’autore"?
La frase: "Gli specchi non riflettono altro che maschere inoffensive, lo diceva pure Oscar Wilde".
Francesco Lomuscio
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