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La leggenda di Beowulf
“Dategli una moneta d’oro e mandatelo a casa: ha una storia da raccontare”. Così il possente Beowulf, eroe leggendario e fiero monarca delle lontane terre del nord, grazia un prigioniero pur di alimentare la propria leggenda. Così, allo stesso modo, è stato forse apostrofato uno degli sceneggiatori di questa grosso teatro dei burattini in 3D. Bob “Ritorno al Futuro” Zemeckis torna dietro la cinepresa dopo il curioso “Polar Express” di tre anni fa per cimentarsi nuovamente con uno dei più recenti giocattoli hollywoodiani: IMAX 3D, la sofisticata tecnologia che dona ad alcuni dei migliori attori del nostro tempo un’impenetrabile maschera di cera assolutamente non richiesta.
La saga del guerriero Beowulf, impavido sterminatore della mala genìa di mostri che affolla la Danimarca magica di quasi duemila anni fa, costituisce il più antico poema epico in lingua inglese e al contempo un succulento bottino per l’industria cinematografica del terzo millennio, sempre a caccia di grandi storie altrui da manipolare a proprio piacimento. La tecnica che permette oggi a Sir Anthony Hopkins, qui l’anziano re Hrotgar, e a John Malkovich, che doppia l’infido Unferth, di nascondere la loro eccellenza dietro inquietanti doppelganger plasticati è purtroppo, a nostro giudizio, un carrozzone buono per adolescenti a caccia di draghi che abbiano ormai consumato il proprio dvd del Signore degli Anelli e siano pertanto alla ricerca di un pallido palliativo. Ricerca vana, ci permettiamo di aggiungere.
Riconosciamo a malincuore quelli che lampeggiano sullo schermo come fantocci privi di alcuna intensità, sia nel sorridere lieti che nel gemere di dolore. Resta assente ingiustificata la scintilla dell’emozione, il quid che incarna la magia del grande schermo e che dovrebbe mantenere l’unica promessa che il cinema possa mai continuare, inesausto, a rinnovare nel tempo: quella di far sognare il suo pubblico, appassionandolo alla narrazione in pompa magna di storie degne di essere raccontate.
Qui abbiamo un’avventura più che meritevole e un regista altrove valido, ma il risultato è un’alchimia evidentemente venuta a mancare.
Unico responsabile dello stridente esito è questo pionierismo tecnologico a tutti i costi che fa rabbrividire chi si rifiuta di riconoscere Robin Wright Penn nello sguardo vitreo del suo androgino replicante gommoso. Sull’ironia involontaria di alcune situazioni peraltro si sorvola, come pure sul Gollum in salsa nordica che perde bava per i primi sessanta minuti di film. Passiamo sopra perfino alla trecciona Lara Croft-style sfoggiata dalla splendida Angelina Jolie: che sia un demonio ancestrale in improbabili tacchi a spillo o un’archeologa d’assalto dei giorni nostri, tutto sommato per lei e la locandina non cambia nulla. Anche se, ammettiamolo, è l’unica del cast ad apparire quasi più realistica del normale in questa versione digitale e luciferina di sé. Donne, tiriamo un sospiro di sollievo: la signora Pitt è stata realizzata ab origine al computer. Non c’è altra spiegazione.
Domitilla Pirro
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