Second chance
Andreas è un poliziotto e sembra avere una vita meravigliosa: ama il suo lavoro, è felicemente sposato con Anne e ha avuto da poco un bambino. Durante una perquisizione incontra Tristan, amico di un tempo e ora criminale allo sbando, incapace di prendersi cura della compagna e del figlio, anche lui di pochi mesi.
Quando una tragica fatalità investe la vita di Andreas, i destini delle due famiglie si troveranno uniti in una sconvolgente catena di eventi.
Susanne Bier, premio Oscar per “In un mondo migliore”, firma una pellicola emotiva e umanamente sfaccettata. Un’opera che indaga i confini tra il bene e il male e che è destinata a far discutere. Il film racconta delle conseguenze che investono persone vulnerabili travolte da circostanze al di là del loro controllo. Racconta come l’essere umano, soprattutto nella sua concezione moderna, non sia comunque immune dal caos e anzi come i segreti più inconfessabili spesso vengano taciuti alle persone che ci sono più vicine.
Si nota decisamente il ritorno alle origini scandinave (ambientazioni, tematiche e attori) attuato dalla regista dopo gli scarsi risultati della trasferta hollywoodiana.
La regista ha spiegato l’essenzialità (a volte eccessiva durante l’arco del film, troppi primi piani) di creare empatia tra il comportamento del protagonista e il pubblico. Un comportamento palesemente sbagliato ma allo stesso tempo anche giusto, secondo una mera logica pratica. La regista, con questo film, vuole scontrarsi contro la normale convinzione che ognuno di noi ha, che alcune persone siano migliori di altre e attraverso questa pellicola smonta e viviseziona questo aspetto della psiche sociale della nostra cultura.
Un film intenso ed emotivo il cui aspetto più seducente si ritrova all’uscita dalla sala. La regista ha sostanzialmente ragione, e ciò si evince chiaramente dalle sua opere, quando afferma “Se i miei film fossero carini e prevedibili, aprirei una panetteria. Si deve fare un film quando non si può non farlo”.
Nonostante gli innegabili pregi e gli spunti apprezzabili tuttavia il film mostra più di un difetto. Se da un punto di vista emotivo la pellicola è un pugno allo stomaco e all’anima dello spettatore, continuamente coinvolto (e condotto) in una situazione dubbia che vuole essere spunto di riflessione personale e dibattito da salotto.
Da un altro punto di vista, analizzando il film a mente lucida, si nota un’eccessiva didascalia nella narrazione, che continua a prendere lo spettatore per mano, sottolineando le tematiche (approccio sostanzialmente monodimensionale alle due famiglie) e ribadendo in maniera eccessiva il punto di vista e i voleri della regista.
Lo spettatore è il bambino che assiste alla messa in onda di un programma già definito e delineato, più frutto di uno studio a tavolino che di una riflessione sociale che scaturisca dal cuore. Inoltre è talvolta stucchevole lo sguardo più televisivo che cinematografico che al regista da alla vicenda.
Da applausi il cast, composto da: Nikolaj Coster-Waldau (star de “Il trono di spade” dove interpreta Jaime Lannister), a Maria Bonnevie (“Insomnia”, “Belle du Seigneur”) senza dimenticare Ulrich Thomsen (“Le crociate”, “L’ultimo dei templari”), Nikolaj Lie Kaas (“Angeli e demoni”, “A funny man”) e Lykke May Andersen (modella danese e assistant director della Hole Gallery, alla sua prima, notevole, prova d’attrice).
In ultimo il film è consigliato agli amanti di Susanne Bier, del cinema scandinavo e a chiunque voglia lanciarsi una riflessione dagli spunti sicuramente interessanti ma che talvolta deraglia nel suo parlarsi addosso, sottolineando troppe volte le stesse tematiche e dubbi morali.
La frase:
"Dov’è Alexander. Alexander? Sofus...".
a cura di Jacopo Landi
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