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Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza







Il film di Roy Andersson è un oggetto molto più complesso e stratificato di come potrebbe apparire.
Costruito per quadri, veri ‘tableaux vivants’ che, assemblati, danno forma ad un mondo in bilico tra passato, presente e finzione, “A Pigeon Sat on a Branch Reflecting on Existence” ha al suo centro un’unica, piccola, vicenda che fa da collante al tutto: la storia di due venditori di ‘oggetti per far ridere’ che cercano di guadagnarsi da vivere con i loro prodotti e, nel loro pellegrinaggio, incontrano tanti personaggi e tante realtà. Questo è l’unico possibile scheletro narrativo individuabile, per il resto il film costruisce il suo senso tramite l’alternarsi di situazioni, atmosfere ed immagini che svelano vari aspetti e sentimenti dell’esistenza.
Tutte sono unificate da un denominatore stilistico comune: la macchina da presa è sempre distante dai volti dei personaggi e ogni inquadratura è costruita come se fosse un quadro (i riferimenti alla cultura visiva sono tanti: da Bruegel ad Hopper a i volti deformati di Otto Dix ed Ernst) e suddivisa in “zone” in cui si attivano diverse situazioni, in modo tale da avere più azioni contemporaneamente; il movimento, sia dei personaggi sia degli oggetti, è ridotto al minimo, dando all’immagine un’impressione di fissità; i volti dei personaggi sono sbiancati dalla cera, impallidendone quindi tratti ed espressioni.
Con un materiale del genere, due erano i rischi più probabili: scivolare nell’estetizzante e schiacciare ogni empatia. Roy Andersson, invece, evita in maniera sorprendente entrambi e, anzi, sfrutta fino in fondo le scelte linguistiche messe in campo: partendo da una situazione ‘raggelata’ nelle azioni e nell’empatia, ogni piccolo movimento e aggiunta assumono una forza incisiva anche e soprattutto sotto un profilo comunicativo. Presentandoci un mondo dell’assurdo e del grottesco in cui tutto è immobile e privo di energia, e situazioni e ambienti sono ridotti a quadri pastello anti-naturalistici, Andersson ci parla della guerra, della morte, dell’amicizia e della violenza filtrandole dall’occhio deformato ‘del piccione’ ma restituendocele, paradossalmente, in tutta la loro verità.
Il film è il capitolo finale di una trilogia dell’essere un essere vivente e questa dimensione riflessiva, qui, è perfettamente espressa: ciò che vediamo sono degli uomini che vivono, si perdono, subiscono e vengono travolti dall’insensatezza del loro esistere. A volte cantano, per sentirsi una collettività, altre osservano inermi le conseguenze del male. Tutto ci viene presentato sotto la maschera dell’ordine e della pulizia: sotto, invece, sembra regnare il caos della ragione, un caos che porta degli uomini alla ricerca di uno scopo a girare in tondo rimanendo fermi.
E tutto questo ci viene raccontato riducendo al minimo le parole e affidandosi, invece, alla forza dell’immagine, che Andersson, grande narratore, scandaglia fin nel profondo.


La frase:
"E’ giusto usare degli esseri umani solo per il proprio divertimento?".

a cura di Stefano La Rosa

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