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Anita B.











Si dice che la memoria sia ciò che di più grande ci portiamo dentro.
Le situazioni trascorse formano negli anni la nostra personalità, ci spingono ad avere atteggiamenti e opinioni in base proprio a quel che ne è stato di noi in passato. Non bisogna cancellare i ricordi, le azioni, e neanche le esperienze che ci recano molta sofferenza perché è proprio da quelle che troviamo la forza di reagire e la determinazione del non farle più accadere. L’esistenza di ognuno di noi è caratterizzata da bei momenti e periodi bui ma un modo per andare avanti, se si ha la volontà, lo si trova comunque. Questa è la storia di "Anita B.", ma potrebbe essere anche quella di tutti noi.
La protagonista del nuovo film di Roberto Faenza, è una giovane ragazza scampata allo sterminio dei campi di concentramento, dove ha visto morire i suoi genitori. Nella speranza di un futuro sereno, va a vivere con i suoi zii a Praga, dove inizia una storia d’amore e dolore con Eli, il fratello dello zio. La lieve ostilità della sua nuova famiglia e la consapevolezza della superficialità del suo rapporto con Eli, fanno fare nuovamente le valigie ad Anita, che parte alla volta della Terra Promessa con un bambino in grembo e un futuro incerto ma piacevolmente accolto.
Il regista torinese si muove abilmente anche in un tema così difficile, che aveva già trattato con maestria anche in "Jona che visse nella balena" e in "Prendimi l’anima". In Anita B. però il fulcro è proprio quello della memoria, del ricordo vivo che non può essere cancellato ma che anzi va condiviso specialmente con le nuove generazione affinché non sia dimenticato. La tenacia della stessa protagonista nel rifarsi una vita convive con la consapevolezza di portare la traccia indelebile nel cuore. La giovane Eline Powell regala un’interpretazione convincente di una ragazza innocente che altro non chiede se non tranquillità.
La regia grigia di Faenza racconta l’orrore della Shoah attraverso i suoi occhi, colorando il film di sentimenti ed emozioni provate da Anita. Tutto è studiato a tavolino: Faenza fa attenzione anche ai costumi e alle musiche che travolgono lo spettatore nella drammaticità dell’evento cui sta assistendo. Ispirato al romanzo "Quanta stella c’è nel cielo" di Edith Bruck, il film arriva puntuale nell’anniversario del giorno della memoria: un incentivo per conoscere la storia, per vivere momenti del passato che fa parte della memoria collettiva, la cui empatia non si trova nei libri di storia ma solo nei racconti di vita vera.

La frase:
"L’unica cosa che mi addolora è non poter parlare con nessuno di quello che abbiamo passato".

a cura di Valeria Vinzani

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