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Ameluk











E’ Venerdì Santo e a Mariotto, paesino dell'entroterra barese, tutto sembra pronto per la consueta Via Crucis.
Un attimo prima che la processione abbia inizio però, Michele (Paolo Sassanelli), parrucchiere del paese e interprete abituale di Gesù, si infortuna sedendosi sulla corona di spine.
Urge quindi un sostituto dell'ultimo minuto e l’unico disponibile si rivela essere il tecnico delle luci giordano Jusef (Mehdi Mahdloo Torkaman), gestore in paese di un Internet Point e inserito nella comunità locale grazie al matrimonio con una ragazza del luogo. Nonostante ciò, la scelta del giovane, di fede musulmana, desta lo scalpore e lo sdegno della folla.
Dalla mattina seguente l’opinione pubblica del paese si divide in fazioni pro o contro Jusef con i due poli opposti rappresentati dai candidati di destra e di sinistra alle elezioni, ormai prossime, per il sindaco di Mariotto.
Il povero Jusef, soprannominato Ameluk, diventa così un agnello sacrificale posto, suo malgrado, su due differenti altari: da un lato quello dell’integrazione fine a se stessa dell’unico centro sociale del paese, e dall'altro quello del becero nazionalismo ostentato dall’odioso destrorso Mezzapesa (Mimmo Mancini).
L’attore pugliese Mimmo Mancini (era, insieme allo stesso Sassanelli, tra gli interpreti de LaCapaGira di Alessandro Piva) fa il suo esordio dietro la macchina da presa con questa commedia dai toni farseschi con cui prova a raccontare il reale attraverso alcune delle sue derive più grottesche.
L’intuizione più felice dell’autore è senz'altro quella di relegare l’azione in un microcosmo geografico e soprattutto sociale che evidentemente conosce a menadito e che non ha problemi a descrivere amplificandone i toni macchiettistici e, allo stesso tempo, stando però ben attento a non allontanarsi mai troppo dalla realtà.
Se, infatti, è chiaro fin da subito come il fine ludico e la ricerca della risata siano assolutamente centrali nella costruzione dell’opera, è altrettanto chiaro che Mancini non ha alcuna intenzione di fermarsi a questo primo livello di lettura.
Il registro grottesco lascia, infatti, ben presto spazio a una sottile amarezza di fondo, soprattutto quando vediamo Jusef stigmatizzato non solo dalla retriva e volgare destra paesana, ma addirittura dai suoi stessi connazionali (il cognato è proprietario di un ristorante etnico) e dalla famiglia della moglie che, spaventati dal clamore mediatico creatosi attorno alla vicenda, temono di pagarne anch’essi il prezzo in termini di ostracismo.
Non è da meno l’ottusa sinistra, capeggiata da una sorta di ultimo dei mohicani chiamato da tutti Arafat, vetusto stereotipo di un comunismo che ormai non esiste più, e che può sopravvivere solo in una realtà locale talmente periferica da non essersi accorta della fine della tradizionale e, per molti versi, consolatoria, dicotomia destra/sinistra.
E' in questa visione di una società in cui nessuno si salva davvero e anche le istituzioni che dovrebbero difendere il concetto di integrazione sembrano farlo più per partito preso che non per una reale propensione al dialogo tra culture differenti, che Ameluk si gioca le sue carte migliori.
Poi, certo, il film non è esente da alcune ingenuità tipiche dell'opera prima e la componente comica a tratti sembra prendere un po' troppo la mano a un Mancini che, talmente innamorato di certi siparietti di carattere dialettale, quasi corre il rischio di far passare in secondo piano il messaggio.
Lo si evince anche da un cast che privilegia i ruoli di contorno (alcuni caratteristi sono eccezionali nel loro incarnare stereotipi magari anche estremi ma comunque tristemente reali) a discapito di un protagonista, il pur volenteroso Mehdi Mahdloo Torkaman, che proprio non ce la fa a incarnare appieno le contraddizioni di questo eroe involontario così refrattario al clamore mediatico.
Resta però il piacere per una commedia che ha il coraggio di dire almeno un paio di verità piuttosto scomode su un melting pot culturale con cui molti si sciacquano la bocca ma che, in Italia, siamo ben lungi dall'aver raggiunto.
E lo fa senza troppe velleità, né autoriali né sociologiche, e con un basso profilo evidente ma mai ostentato, abile nel sopperire alla povertà di mezzi con alcune azzeccate scelte stilistiche, prima tra tutte una fotografia stilizzatissima, tutta virata al giallo, che allontana l'opera da qualsiasi facile pretesa documentaristica.
Perché sia chiaro che Ameluk, alla fine, è una favola.
Scorretta e dal lieto fine piuttosto incerto, ma pur sempre una favola.
E, come tutte le favole, serve a capire un po' meglio la realtà.

La frase:
"Jusef, dove scappi? Ti dobbiamo ancora mettere in croce!".

a cura di Fabio Giusti

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