Acciaio
Di qua l’acciaieria che lavora a ciclo continuo, ventiquattro ore al giorno, senza fermarsi mai; di là l’isola d’Elba, paradiso sognato e irraggiungibile di famiglie felici. In mezzo, in riva alla loro spiaggia segreta, Anna e Francesca, le quali, rispettivamente con le fattezze di Matilde Giannini e Anna Bellezza, sono piccole, ma già grandi, e provvedono a vivere la loro ultima estate di innocenza prima del liceo.
Prendendo ispirazione dall’omonimo romanzo di Silvia Avallone, parte da qui il lungometraggio tramite cui Stefano Mordini, autore di quel "Provincia meccanica" (2005) che vide Stefano Accorsi e Valentina Cervi impegnati a concedere anime e corpi a una scombinata coppia, torna alla finzione, dopo la parentesi documentaristica rappresentata da "Il confine" (2007).
Lungometraggio che, nel mostrare in che modo essere belle e crescere in una periferia operaia sia difficile, tira in ballo anche il Michele Riondino di "Dieci inverni" (2009) nei panni di Alessio, fratello di Anna; il quale non solo si ostina a credere nei valori del lavoro in fabbrica, ma, sebbene possa avere tutte le ragazze del paese, continua a pensare all’unica che ha perduto: Elena alias Vittoria Puccini.
Tutti personaggi che, tra amori che arrivano e loro genitori a cui giurano, nel bene e nel male, di non assomigliare mai, si trovano, comunque, sotto la violenza del succitato, inarrestabile ciclo continuo dell’acciaio.
Perché, mentre la loro vita prende un’accelerata improvvisa, fino a incrinarsi e a spezzarsi, è evidente che siano in particolar modo l’odio e l’amore per quegli stabilimenti – cattedrali che evidenziano un’antica potenza – i sentimenti destinati ad attraversare i circa novantacinque minuti di visione.
Sostenuti a dovere dal buon cast di nuovi e vecchi volti, tra i quali anche il Massimo Popolizio di "Romanzo criminale" (2005), ma penalizzati da una regia decisamente poco incisiva che, priva di qualsiasi particolare guizzo, non permette al tutto di lasciare il segno.
Con conseguente rischio di caduta nella morsa della noia e spingendo a rimpiangere la precedente, citata (e ingiustamente criticata) fatica interpretata da Accorsi e la Cervi.
La frase:
"Io all’età tua c’avevo sogni, idee, e se è pe’ questo ce l’ho ancora".
a cura di Francesco Lomuscio
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