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A casa tutti bene

La recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com

di Francesco Pozzo05 febbraio 2018Voto: 4.0
 

  • Foto dal film A casa tutti bene
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Reduce dalla più o meno fortunata parentesi statunitense e mai così distante dal ruffiano ma piacevole equilibrio di quella Ricerca della Felicità capace di consacrarlo agli occhi dell’America e ai botteghini del mondo intero, Gabriele Muccino ritorna in patria con questo asfittico Parenti Serpenti ai tempi di Instagram confermando puntualmente difetti e stereotipi alla base della sua lacrimosa e monotematica filmografia raccontandoci ancora una volta tradimenti, illusioni e riconciliazioni di una generazione allo sbando tramite il solito carosello di borghesucci irresponsabili in crisi d’identità e sentimenti e in perenne fuga dalle proprie responsabilità di adulti con tanto di risibile e sgradita coppietta di giovani amanti ad alleggerire banalmente e inverosimilmente il tutto.

Unendo qualche new entry ad un bel cast di volti conosciuti che coinvolge fra gli altri anche il povero Favino e la grande Sandra Milo, lo sguardo superficiale e cinicamente furbesco di Muccino non si evolve ma rimane sempre clamorosamente tale, consegnandoci l’ennesimo capolavoro del ridicolo involontario che non fa che confermare tutti gli stucchevoli e deleteri topoi e cliché mucciniani ai quali siamo ormai tristemente abituati da tempo: una serie di isteriche maschere fisse che procedono snocciolando solenni banalità da baci perugina, frasi fatte fra lo scontato e l’irricevibile e aforismi da mani nel capelli abbaiandosi addosso in una sceneggiata dopo l’altra ansie di coppie e sintomi della crisi di mezz’età tentando vanamente di dar sostanza ad uno stracco copione che procede su binari fissi e ampiamente rodati infilando al punto giusto una canzoncina d’epoca preferibilmente suonata al piano, un bell’amplesso al chiaro di luna e l’immancabile Jovanotti che in fondo, quando si raschia il fondo del barile, male non fa.

È tutto così ipocrita e urlato, negli smancerosi fotoromanzi di Gabriele Muccino, tutto così lagnoso e approssimativo, falso e ricattatorio, dai dialoghi artificiosi dei suoi mediocri ed ansimanti bimbi malcresciuti fino alle svenevoli e pietose scenate, dai piagnistei alle sorprese telefonate, dal banalissimo ed inerte svolgimento fino alle patetiche scene madri con tanto di cieli funestati e tramonti violacei ad accompagnare grida e tormenti dei suoi monolitici e deprimenti protagonisti avvolti loro malgrado da un’inerte colonna sonora di un Nicola Piovani ai minimi storici e scortati dalla solita voice over irritante e non richiesta che non può che peggiorare il tutto, anche se ringraziamo sentitamente il regista e sceneggiatore romano per averci risparmiato il supplizio del fortunatamente assente fratello Silvio.

Non c’è candore né profondità ma solo una sconcertante dose di narcisismo ed avvilente banalità, nello sguardo compiaciuto, ampolloso e vagamente misogino di Muccino, regista che vorrebbe accontentare tutti finendo per ottenere l’esatto contrario con l’ennesimo girotondo di ovvietà e falsa amarezza che non riesce a guardare oltre il proprio naso e che di meglio non riesce a fare che mitragliarci addosso fra uno spasimo e l’altro ansie e rimorsi di un gruppo d’interpreti di cui ci importa francamente meno di zero, consegnandoci ancora una volta il perfetto feuilleton italiota in cui è tutto talmente sopra le righe, scontato e fuori tempo massimo che sembra proprio di ritrovarsi davanti ad una di quelle brutte telenovele che sarebbero parse già vecchie una decina d’anni fa, una di quelle in cui ti ci imbattevi per sbaglio la sera e volevi subito cambiare canale.

E se la confezione professionale e la fluidità di Muccino nel dirigere e gestire azione ed attori come sempre non mancano, pur ovviamente meno efficaci di un tempo, certo non bastano a salvare un progetto naufragato in partenza e del quale si fatica davvero a cogliere la ragione della propria esistenza, se non quella di cavalcare biecamente l’onda dei fasti commerciali di un tempo probabilmente e fortunatamente irripetibile.

Ma d’altronde, quando un selfie scattato sul set diventa la locandina ufficiale di un film, uno due domande farebbe bene a porsele.


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