Abbraccialo per me
“Quando, due anni fa, mi raccontarono la storia di un ragazzo colpito da disabilità mentale, del suo calvario tra psichiatri e psicofarmaci che gravavano sempre più sul suo fragile fisico, ebbi una forte resistenza a valutare la realizzazione di un film su questa malattia mentale. Non avevo la competenza necessaria per affrontare un tema così delicato, avrei rischiato la superficialità, la presunzione. Ma, riflettendo e ripensando alla storia di questo ragazzo, la mia attenzione si concentrò sulla famiglia e, in particolare, sulla madre. Cosa succede in una famiglia quando la disabilità mentale entra nella sua vita? E, in particolare, quali difficoltà dovrà affrontare la madre che ha tenuto in grembo, partorito e cresciuto questo figlio che per lei è il più straordinario bambino sulla faccia della terra e che, proprio lui in mezzo a tanti, nell’adolescenza, viene colpito dal disagio mentale? Mi sono venute in mente due considerazioni sull’amore materno e sul rapporto madre figlio. La prima della scrittrice e filosofa Elisabeth Badinter: “L’amore materno è soltanto un sentimento umano. E, come tutti i sentimenti, è incerto, fragile, imperfetto”. La seconda di Erich Fromm: “Il rapporto tra madre e figlio è paradossale e, per un senso, tragico. Richiede il più intenso amore della madre, e, tuttavia, questo stesso amore deve aiutare il figlio a staccarsi dalla madre e a diventare indipendente””.
È indispensabile riportare questa lunga dichiarazione del veterano della celluloide classe 1939 Vittorio Sindoni – autore, tra l’altro, di “Amore mio non farmi male” (1974) e “Una fredda mattina di Maggio” (1990) – per comprendere pienamente cosa lo abbia spinto a raccontare sullo schermo il travaglio di Francesco detto Ciccio, che, vivace e allegro ragazzino come tanti interpretato dal Moise Curia visto in “Maraviglioso Boccaccio” (2015), comincia ad essere considerato un “diverso” da vicini di casa, compagni di scuola e insegnante dal momento in cui inizia a manifestare stranezze nel proprio comportamento.
Stranezze che inducono la madre Caterina alias Stefania Rocca a difenderlo sempre più dalle cattiverie e a sostenerlo nella sua passione per la batteria nel tentativo di trovare una luce e una speranza di salvezza; mentre il disprezzabile e geloso marito Pietro, ovvero il Vincenzo Amato di “Nuovomondo” (2006), non vuole riconoscere il legame simbiotico tra lei e il figlio, tutt’altro che propenso ad accettarne l’esclusività.
Man mano che un misterioso individuo chiamato Giampiero e incarnato da Alberto lo Porto fa improvvise apparizioni al giovane protagonista, complicandone ancora di più l’esistenza e aggiungendosi ad un ricco cast che, comprendente anche Giulia Bertini nel ruolo della sorella Tania e Paolo Sassanelli in quello di un maresciallo dei carabinieri, finisce per rappresentare il maggiore pregio dell’operazione.
Perché, sebbene lodevole risulti il tentativo di sensibilizzare lo spettatore nei confronti del delicatissimo argomento, è impossibile non avvertire una certa fiacchezza narrativa ed un look generale tipici di determinate fiction televisive... ambito lavorativo in cui, del resto, il regista ha trascorso gli ultimi ventisei anni prima di tornare al cinema.
La frase:
"Deve diventare un uomo, se invece vuole fare il pazzo, va a fare il pazzo in una clinica, quella giusta".
a cura di Francesco Lomuscio
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