4 mesi, 3 settimane e 2 giorni
Vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes del 2007, "4 mesi 3 settimane 2 giorni" del regista rumeno Christian Mungiu è il titolo di una serie di film dedicati all'epoca del regime comunista in Romania. L'ambizione di questi "Racconti dell'età dell'oro" (questo il titolo della serie) consiste nel raccontare vicende personali e collettive, miti e leggende urbane del comunismo senza affrontare in maniera più generale la questione ma affidandola ai racconti dei loro protagonisti, ordinari ed eccezionali allo stesso tempo.
Ad aprire la serie un tema di una durezza sconvolgente come l'aborto. Una legge rumena ha reso tale pratica illegale dal 1966 fino alla caduta del comunismo, aprendo quindi la strada a un male di gran lunga peggiore: l'aborto clandestino, con tutti i rischi sanitari per la donna che prenda la difficile decisione di sottoporsi a questa rischiosa procedura. La pellicola di Mungiu non vuole prendere una posizione esplicita o scrivere un astratto trattato su tale questione eticamente spinosa, ma descrivere gli effetti della decisione di abortire su una relazione fra due amiche e sul piccolo mondo che ruota intorno a loro. La realtà della città in cui Otilia e Gabita consumano la loro tragica vicenda è quella di un impero in disfacimento: a fronte di una burocrazia poliziesca e di facciata mercato nero, corruzione e pelosa rispettabilità perbenista coabitano in attesa dell'inevitabile caduta.
L'anno d'ambientazione è del resto il 1987.
Mungiu sceglie consapevolmente quello che ormai è l'unico modo di trattare un tema così drammatico: evitando facili forme di patetismo assegna al proprio racconto uno stile secco e asciutto. Indicativa è l'assenza di musica di accompagnamento che non sia legata a circostanze ambientali concrete. Tutte le fasi che condurranno Gabita all'interruzione della gravidanza sono descritte in modo freddo, distaccato, quasi fossero condotte in un laboratorio scientifico e non nel sudicio albergo in cui viene effettuata la procedura.
L'occhio del regista, impietoso, mostra le maschere di questa tragedia urbana nella loro nudità, lasciando trasparire paura, confusione, meschinità. Il sottotesto è però evidente: il male non è individuale, ma sistemico, e domina il destino dei personaggi come lo scuro cielo di febbraio che incombe su di loro. Questo senso di prigionia e restrizione viene rivelato dai gesti trattenuti, dalle parole non dette, dai movimenti di macchina che seguono in maniera spietata le due giovani per arrestarsi bruscamente di fronte all'orrore. La camera fissa non è però una forma di compiacimento, ma un vero e proprio atto di violenza nei confronti dello spettatore, che non può volgere lo sguardo dinanzi all'insostenibile.
Sconvolgente il finale, di fronte a un piatto di delicatezze tratte dalle carni di vari animali: fegato, midollo, cuore, cervello. Le componenti fondamentali di ogni essere vivente evoluto.
La frase: "Avevo fame"
Mauro Corso
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