47 Ronin
Nell’Ottocento giapponese, lo straniero Kai viene accolto nel villaggio di Ako, governato dal buon Lord Asano. Quando il malvagio Lord Kira conquista Ako, allontanando Kai dal suo amore impossibile, un esercito di samurai ormai senza terra, detti Ronin, organizzerà la sua vendetta.
Il primo lungometraggio di Carl Rinsch, al contrario dei personaggi che lo popolano, non centra mai il bersaglio. Già dai primi minuti inizia a farsi largo il sapore di una storia realizzata con lo stampino che, come sempre, si trascina dietro una quantità insormontabile di noia. Se non fosse per un paio di scene che si avvicinano leggermente alla possibilità di un fiacco divertimento nella speranza di risollevare le sorti di una pellicola decisamente piatta, addormentarsi a metà film sarebbe una reazione più che fisiologica.
Evitiamo di insistere troppo sullo sconforto che provoca vedere rimescolate in una sceneggiatura (firmata da Chris Morgan e Hossein Amini, autore di “Drive”) le stesse situazioni, le stesse dinamiche, le stesse frasi di sempre; sarebbe una noia ulteriore sia per chi legge, sia per chi scrive.
Il punto centrale su cui discutere è proprio l’assenza di divertimento. Non si intravvede nemmeno da lontano un minimo sforzo di dare al film quel qualcosa in più per uscire dall’inutilità più totale. Disastroso nella gestione dei tempi, Rinsch cerca di riscattare infiniti minuti di dialoghi tra personaggi monodimensionali, per giunta girati in modo profondamente (e forse gravemente) elementare, con poverissimi sprazzi di azione che, se non fosse per un 3D usato male, non avrebbero nulla di spettacolare.
Credo sia importante sottolineare come sia infinitamente fastidioso l’uso gratuito del 3D. Ormai siamo abituati a trovarci di fronte alla sua enorme potenza (basti citare l’ultimo estasiante esempio, “Gravity” di Alfonso Cuarón), e vederlo sacrificato a una mera giustificazione per una manciata di scene non solo è sgradevole nelle intenzioni, ma, se trattato con maldestria e indifferenza anche nelle sequenze più statiche, anche nella percezione, andando a rovinare immagini che si godrebbero molto più comodamente (ed economicamente) in due dimensioni.
Per tornare al film, è stata una grande delusione vedere come è stata manipolata e ridicolizzata questa leggenda giapponese che conterrebbe in sé un numero inestimabile di suggestioni e riflessioni. Ed è inoltre un vero peccato osservare un cast di talento (che, escluso Keanu Reeves, è interamente giapponese) che si ridicolizza in questo modo, in un festival dell’approssimazione che a tratti fa sorgere il dubbio su una possibile autoironia del film, la quale, in realtà, è ben lungi dall’esistere.
Fa sorridere la strega interpretata da Rinko Kikuchi, mentre è preferibile non addentrarsi in un commento riguardante la prova (involontariamente) esilarante di Keanu Reeves.
La frase:
"Montagne di cadaveri non riusciranno ad ostacolarci".
a cura di Luca Renucci
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