30 giorni di buio
I trenta giorni di tenebre che ogni inverno avvolgono l’isolata cittadina di Barrow, in Alaska, quale periodo di caccia all’uomo per una stirpe di astuti vampiri succhiasangue.
Un’idea sicuramente interessante che ha consentito alla miniserie in tre libri a fumetti “30 days of night”, firmata da Steve Niles e Ben Templesmith, di essere salutata come revival dell’horror in vignette disegnate e di finire su grande schermo sotto la produzione della Ghost House Pictures di Sam Raimi e Robert Tapert, artefici del maxi-classico del gore “La casa” (1981).
Un’idea che, sotto la regia di David Slade, alla sua seconda fatica dopo il pluripremiato thriller “Hard Candy” (2005), finisce per trasformarsi in un racconto di celluloide costruito su una lunga attesa simile in un certo senso a quella che fu alla base di “Fog” (1980) di John Carpenter, sfociante poi in un classico assedio post-“La notte dei morti viventi” (1968), con Josh Hartnett (“Pearl Harbor”) e Melissa George (“Turistas”) in mezzo al gruppo di sopravvissuti impegnati nella difesa, tra spargimenti di sangue ed ottimi effetti speciali per mano della Weta Workshop de “Il Signore degli anelli”.
E, come c’era da aspettarsi, i redivivi dai canini affilati in questione sono molto più vicini, nell’iconografia, a quelli propinatici dalla trilogia “Blade” che ai primi discendenti del conte Dracula, tanto più che, nonostante le abbondanti dosi di liquido rosso disperse sulle bianche scenografie innevate di Paul D. Austerberry (“Resident evil: Apocalypse”), l’impressione generale è quella di trovarsi in territorio cinematografico action contaminato di splatter.
Mentre la curatissima fotografia di Jo Willems (”London”) illumina funereamente il tutto, però, appare evidente una certa piattezza registica che, al di là di occasionali momenti distribuiti nel corso degli ultimissimi minuti di visione, lascia emergere la carenza dell’elemento essenziale del genere: la capacità di coinvolgimento emotivo, continuamente camuffata dietro il maldestro ricorso al vecchio stratagemma dell’alternanza dei piani sonori senza riuscire neppure a spaventare nessuno.
Alla fine, costretti anche a vedere l’eccezionale Ben Foster (“The punisher”) rilegato in un ruolo secondario, viene soltanto una gran voglia di recuperare il “Vampires” (1998) del succitato Carpenter, il quale, in quanto a mix di action-movie e signori della notte, era tutta un’altra cosa.

La frase: "Mi piace la carne cruda, è un problema? I miei gusti non ti vanno bene?".

Francesco Lomuscio

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