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Wonder Woman

La recensione del film a cura della Redazione di FilmUP.com

di Francesco Lomuscio29 maggio 2017Voto: 6.5
 

  • Foto dal film Wonder Woman
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“Un tempo volevo salvare il mondo, questo luogo bellissimo” è la frase che apre le circa due ore e venti di visione volte a riportare Gal Gadot nei panni della supereroina dei fumetti creata nel 1941 da William Moulton Marston, dopo la sua breve apparizione nel corso della fase conclusiva di “Batman vs Superman: Dawn of justice” di Zack Snyder.
Lo stesso Snyder che figura soltanto tra gli autori del soggetto all’interno di questa prima trasposizione per il grande schermo delle imprese della Diana Prince che, principessa delle Amazzoni cresciuta su una ignota isola paradisiaca, i fan storici ricordano benissimo aver già posseduto i connotati della ex Miss America Lynda Carter nei sessanta episodi di cui si costituì una popolare serie televisiva prodotta tra il 1975 e il 1979.

Popolare serie televisiva la cui prima stagione si svolgeva durante la Seconda Guerra Mondiale mondiale e dalla quale, di conseguenza, questa nuova rilettura a firma di Patty Jenkins – in precedenza autrice del “Monster” che fece ottenere il premio Oscar a Charlize Theron – prende chiaramente le distanze (come pure dalle storie disegnate) immergendosi nel 1918.
Periodo storico scelto per contrapporre un combattivo e forte personaggio femminile alle suffragette della prima ora e cui si giunge dopo che lo spettatore ha assistito alla crescita della protagonista – dal volto di Lilly Aspell ad otto anni e quello di Emily Carey a dodici – ed al suo inaspettato incontro con la spia americana Steve Trevor, al quale concede anima e corpo il Chris Pine della saga “Star trek”.
E, se già il loro dialogo riguardante i piaceri della carne lascia tranquillamente avvertire l’indispensabile ironia di fondo di un insieme mirato a ribadire che solamente l’amore può salvare il mondo, non è da meno il multilingue Sameer incarnato da Saïd Taghmaoui, ex soldato marocchino divenuto il maggiore esperto di missioni in incognito.

Figura che provvede – come pure l’ex cecchino Charlie di Ewen Bremner – ad arricchire lo stuolo di personaggi che, oltre al sir Patrick alias David Thewlis, superiore di Steve, includono il malvagio generale Ludendorff e la dottoressa Isabel Maru, sua chimica preferita, rispettivamente interpretati da Danny Huston ed Elena Anaya.
Dottoressa che odia i deboli ed essere debole, tanto da mettere a punto un mortale gas destinato a rappresentare la più temibile minaccia contro cui si scaglia colei che, da sempre simbolo globale di forza e uguaglianza, non manca, ovviamente, di sfoggiare i bracciali respingi-raggi, la spada detta ammazzadio e il letale lazo di Hestia, meglio conosciuto come Lazo nella verità.
Colei che, alla continua ricerca del temibile dio della guerra Ares, sembra anche emulare il Superman del compianto Christopher Reeve nel momento in cui riesce ad afferrare una pallottola sparata contro Trevor; al servizio di un’operazione che, tra un primo scontro con soldati tedeschi e Amazzoni infarcito di tappeti di frecce scagliate tramite arco e conflitto conclusivo tempestato di fuoco e fiamme, richiama in un certo senso alla memoria il dimenticato “Le avventure di Rocketeer”.
Probabilmente perché, proprio come nel caso di quel cinecomic diretto nel 1991 da Joe Johnston, ci troviamo dinanzi ad un lungometraggio confezionato ricorrendo alle moderne tecnologie cinematografiche, ma rispecchiando gli stilemi narrativi ed estetici – con tanto di effetti visivi chiaramente retrò – di una Settima arte risalente a molto tempo fa.
Un aspetto che, permettendo al tutto di distaccarsi da tanto schizofrenici quanto insostenibili look proto-videoclip che caratterizzano la maggior parte dei titoli d’intrattenimento a stelle e strisce d’inizio terzo millennio, si rivela da solo il fondamentale pregio del film della Jenkins... tanto da spingere tranquillamente a sorvolare sul non sempre incalzante ritmo generale.


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