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Wild Child
L’ultimo film di Natasha Richardson prima della sua tragica scomparsa, è una commedia per teenager costruita attorno alla giovane stella Emma Roberts, nipote della famosa Julia (è la figlia del fratello). La compianta moglie di Liam Neeson è la direttrice di una severa scuola inglese dove viene spedita una giovanissima americana modello Paris Hilton affinché impari un pò di disciplina.
Da quando è morta la mamma, il papà non trova tempo e forze per educarla e la casa al mare è un party dietro l’altro.
Solita storia: arrivo con buon bagaglio di delusione e pronta volontà di tornarsene indietro dove c’è sole e allegria, primi ravvedimenti caratteriali, amicizie, amore, constatazione che forse il passato non era bello e sincero come si pensava, felicità, equivoco che sembra far precipitare l’idillio appena formatosi e risolutivo happy end con protagonista finalmente saggia e contenta.
Non si scappa, il canovaccio è sempre lo stesso, lo si può prevedere dopo tre minuti di film rischiando di sbagliare solo i dettagli. Ad Hollywood si realizzano film del genere con lo stampino, proprio come in fabbrica. A distanza di anni, si ripropone lo stesso racconto puntando ad un pubblico che prima non era ancora adolescente. La morale della favola è chiara e sempre lineare, interessante è vedere come venga attualizzata a seconda della generazione del momento.
Se la Brittany Murphy di "Le ragazze dei quartieri alti" aveva (nel film) ventisei anni quando si rendeva conto di dover cambiare, qui la protagonista ha circa sedici anni, ma già si comporta (nel principio) come una coniglietta di Playboy. L’età dei rapporti si è abbassata, inutile far finta di nulla e il gentil sesso è ora diventato quello che spesso fa la prima mossa (almeno in America, in Italia siamo sulla buona strada). Quando lo studente inglese di buona famiglia chiede di aspettare prima di avere un rapporto più intimo, lei gli chiede provocatoriamente se lui sia gay. La ragazza bacchettona e antipatica si veste in maniera casta e elegante, mentre la protagonista, più sveglia e intelligente, indossa una succinta minigonna attirando lo sguardo compiaciuto di tutta la sala. Lo stesso titolo del film, "Wild child", rimanda ad una famosissima trasmissione erotica (ma non porno) americana, chiamata "Wild girls" (Ragazze selvagge). Sono i tempi di oggi, che li si voglia o no. L’apparenza conta, la morale della favola, il "ravvedimento finale" non comprende tutto (anche se rimane la solita equazione: bionda = oca), e se da una parte questo è più realistico e scansa via tanti ipocriti ragionamenti e volontà, dall’altro è così spinto all’estremo che vi si intravede la voglia di far passare un modello, di educare, o meglio, indirizzare il pubblico di riferimento ad uno stile di vita consumistico e sciommiottesco del peggiore mondo adulto, quello cui si dedicano copertine e servizi dei telegiornali ad ogni nuova bravata.
Il film diventa così non solo l’occasione per incassare al boxoffice, ma anche un veicolo per fare interessare tante giovanissime verso un intero mondo di prodotti di consumo (dai cosmetici per ragazzine alla moda degli adolescenti, passando per tanti altri apparecchi più o meno inutili) che sembrano, oggi giorno, il grande mercato da asfaltare per aziende sempre più afflitte dalla crisi. O forse è tutto un abbaglio di chi scrive e davvero film come "Wild child" nascono dalla strenue volontà degli autori di raccontare una storia a cui hanno pensato fin da quando erano piccoli, fin da quando sognavano di fare cinema, di fare "arte".
La frase: "C’è una gerarchia in questa scuola: insegnanti, prefetti, scolari, cani, vermi e americani. Kate fai attenzione che lei si allinei!".
Andrea D’Addio
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