We Need to Talk About Kevin
Che pace può esserci per una madre che scopre di aver dato alla luce un mostro? Quale l’errore, la svista educativa? Questo è ciò che si chiede ossessivamente, dolorosamente, la protagonista, Eva, interpretata da un’eccezionale Tilda Swinton. Dipanando la vicenda su differenti piani temporali, pervadendo le scene di una musica oltre e altra rispetto a ciò che scorre sullo schermo, la regista Lynne Ramsey racconta di una maternità difficile - con una figura paterna quasi assente - rappresentata anche da un pianto di neonato ininterrotto che scardina i nervi, attutito solo da quello assordante (e ricercato) di un martello pneumatico (una scena che agghiaccia e trasmette l’insofferenza, il pericolo del baratro mentale): un figlio, Kevin, forse poco accettato, difficile e strano, un rapporto bipolare di odio/amore, lui che, adolescente, con arco e frecce, compie una strage nel suo liceo, senza alcun motivo.
La Ramsey concentra la sua attenzione sulla madre, marcata a vista, nel volto scavato e pallido della Swinton, in parte coperto da corti capelli castani con lungo ciuffo: madre che cerca le tracce di quel Male nascosto nel figlio, quasi fosse un seme pronto a germogliare (ma gettato da chi?), ne analizza gli atti alla scoperta di una sua mancanza materna, perché quello che si vuole è almeno una risposta, un senso. Ma il Male non si spiega, come in un paio di occasioni il figlio avrà modo di "far notare", e il perché rimane sospeso in aria, quasi un ricordo cancellato, se mai ci fosse stato. "Perché l’ho fatto? Prima lo sapevo, ma ora non ne sono più tanto sicuro".
Un film che fa male e colpisce per la sua durezza, per l’assenza di speranza, nel suo sottolineare che la maternità non è di per sé perfezione, ma può essere drammatica, insostenibile.
We Need to Talk About Kevin è film compiuto fino a rasentare il fastidio, trasmette angoscia allo spettatore, che esce dalla sala davvero devastato nell’intimo, nonostante la struttura formale così geometrica che può irritare e raggelare le emozioni vere ma che certo non può lasciare indifferenti.
Un pugno allo stomaco.

La frase: "Il punto è che non c’è il punto".

Donata Ferrario

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