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The Eye of the Storm











Geoffrey Rush e Judy Davis sono l’attore teatrale Basil e la principessa squattrinata Dorothy, figli espatriati della ricca Elizabeth Hunter alias Charlotte Rampling, i quali vengono convocati al suo letto di morte, al Centennial Park di Sydney, dove la donna è assistita da una governante, due infermiere e un avvocato.
Con i due che non possono fare a meno di subire il forte ascendente della morente, mentre pensano al suo stuzzicante patrimonio, questa, in sintesi, è la vicenda – tratta da un romanzo dell’autore premio Nobel Patrick White – raccontata su celluloide dall’australiano Fred Schepisi, regista, tra l’altro, de "La casa Russia" (1990) e "Creature selvagge" (1997).
Una vicenda continuamente alternata tra cinismo del presente – con dialoghi decisamente pungenti – e ricordi dimenticati, atta a delineare una selvaggia esplorazione dei rapporti familiari al cui interno sono l’amore e l’odio ad accavallarsi senza tregua per poter avere l’uno il sopravvento sull’altro.
Ma senza dimenticare un‘indispensabile, evidente spruzzata d’ironia destinata ad emergere nel corso degli splendidi duelli verbali (tra l’altro, viene addirittura osservato che pene è una bella parola e che suona meglio del suo aspetto); mentre, sebbene le scenografie di Melinda Doring – il cui curriculum comprende l’horror soprannaturale "Triangle" (2009) di Christopher Smith e "Ragazzi miei" (2009) con Clive Owen – facciano la loro figura, oltretutto valorizzate dalla fotografia del veterano Ian Baker, non si può fare a meno di notare che sia soprattutto sulla prova degli attori e sui già citati dialoghi che l’intera operazione tende principalmente a puntare.
Perché, se Rush si rivela grande come sempre, non sembra essere da meno neppure il resto del magistrale cast, comprendente, nel ruolo di Flora, anche Alexandra Schepisi, figlia del regista.
Fino al tragico epilogo (piuttosto prevedibile, in verità) di una raffinata operazione che, però, non solo eccede in lentezza narrativa tanto da apparire eccessivamente lunga (si sfiorano le due ore di durata), ma, soprattutto, rischia di risultare adatta soltanto a un certo pubblico altolocato.

La frase:
"Andiamo Dorothy, non vedi che nostra madre è completamente rimbambita?".

a cura di Francesco Lomuscio

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