The Endless River
E' il sangue (sangue che scorre, un gran fiumicello) a far sì che si incrocino le esistenze di Gilles e Tiny: lui, francese di nascita e in Sud Africa da un anno, si ritrova la famiglia sterminata (moglie e due figli) da tre balordi appartenenti a gang malavitose della zona (siamo in un paese imprecisato che molto probabilmente non dista troppo da Città del Capo); lei è la moglie di un criminale (un tipo misterioso che ha appena finito di scontare quattro anni di galera per rapina a mano armata) sospettato di essere il responsabile proprio della strage nella fattoria di Gilles e ritrovato morto vicino alla fattoria stessa (sulla sua innocenza ci sono davvero pochi dubbi fin dal principio, ma va detto che la scelta di andare a rapinare come sciacalli proprio la casa incriminata non era propriamente brillante).
“The Endless River” distrugge e ricostruisce le vite di due anime travagliate, come quelle di Gilles e Tiny, e ne narra le vicissitudini post-lutto, la loro unione come coppia e la loro elaborazione del dolore segnata dal sospetto della donna sulle responsabilità del nuovo compagno proprio nella morte del marito (una forma di vendetta per via di un avventata dritta del capitano della polizia).
Ad irrompere prepotentemente sullo schermo è, in tempi alternati per l'intero film, l'acqua in ogni sua forma, il movimento della materia in relazione alle tempeste o alle pause emotive dei due protagonisti, la vastità della manifestazione naturale dell'acqua (e il Sud Africa pare una cornice ideale e mozzafiato) giustapposta alla scansione del racconto di Tiny e Gilles, prima come singole vittime di un omicidio e poi come realtà affettiva che tenta di condividere tutto (un racconto scandito in modo esplicito dalla frammentazione e successiva denominazione di capitoli).
La sinergia tra tutti gli ambienti, interni ed esterni, che accolgono il dramma e lo aiutano ad evolversi in modo abbastanza compatto è certamente il punto di forza di una pellicola parzialmente riuscita e condita da quella che sembra essere una naturale propensione del regista ai lunghi tempi dialogici, a corpi di sequenze silenziose (lo si intuisce dopo dieci secondi di proiezione), ad un lavoro di scrittura orientato all'apertura di grandi varchi visivo-naturalistici, accantonando i grossi confronti dialettici che aiuterebbero di certo i personaggi a spingersi oltre, a conoscere meglio sé e l'altro (il riferimento è, ancora una volta, a Tiny e Gilles). E' un po' questo il problema del film: la grande ricerca e il profondo studio sull'ambiente e sulle figure dei personaggi all'interno dell'ambiente sacrifica parti di narrazione pura che invece darebbero linfa vitale a passaggi cruciali della vicenda, passaggi che allo stato delle cose talvolta faticano ad ingranare e paiono prematuri o ritardati. Tutto particolarmente evidente negli ultimi due capitoli.
Ben calibrata è invece la delicata (ma non troppo velata) critica ai sistemi sociali di mancata integrazione “razziale” in un paese, come il Sud Africa, in cui i contrasti e le differenze si fanno sempre sentire, soprattutto in piccole realtà cittadine come quella del film.
Gli attori protagonisti non sfigurano (pur non impressionando), ma nel complesso il film resta a galla con dignità nel grande fiume emotivo che racconta. E se non si annega il risultato è buono a prescindere.
La frase:
"Ho bisogno di andare via da qui. Vieni con me?".
a cura di Riccardo Favaro
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