The Chronicles of Riddick
Se Riddick avesse avuto una faccia diversa da quella di Vin Diesel, probabilmente lo avremmo amato di meno. È anche grazie all'attore americano - qui anche in veste di produttore - che questo film assume uno spessore particolare che lo rende un prodotto valido ed al di sopra della media. Il marmoreo Vin affida al suo personaggio una vena malinconica che lo caratterizza come un eroe romantico a tutto tondo. Il personaggio di Riddick - in realtà schivo e dalla favella misurata, quasi asciutta - si ritrova, suo malgrado, ad essere l'unico essere dell'universo a poterlo salvare da un'orda di fanatici conquistatori che distruggono pianeti come fossero bolle di sapone. Riddick, grazie ad illustri natali - è l'ultimo dei Furiani, una razza di cui trent'anni prima si erano eliminati tutti gli infanti - è il predestinato ad affrontare "Il Governatore" ed i suoi Necromongers, guerrieri convertiti ad una sorta di religione violenta ed assolutista. Dapprima riottoso a questo immane compito, Riddick, anche per amore di Kira (Alexa Davalos, un viso fresco ed espressivo) assurge a capo dei ribelli. Da qua le cronache delle sue gesta e delle sue imprese.
Il regista David Twohy - dopo la felice riuscita di "Pitch black" dove il "cattivo" Riddick appare per la prima volta - torna sul personaggio disegnandolo intingendo il pennello nel chiaroscuro dell'epica. Se da una parte, infatti, realizza un film di fantascienza - ne sono testimonianza le riprese di fantastici pianeti dove in poche ore si susseguono temperature che vanno dai - 200º ai + 700º - , dall'altra affonda nel campo del mito e dell'epopea descrivendo duelli a singolar tenzone dove onore e tradimenti si alternano come un racconto della Tavola Rotonda. Il film, comunque, non è solo la vista e rivista storiella fantasy di cui abbonda un certo cinema degli ultimi anni. Certamente le ambientazioni ed i costumi medioevaleggianti rimandano al genere di Lucas e compagni, ma l'opera, grazie ad una sua sostanza di fondo, se ne discosta. Pensiamo, ad esempio, ai molteplici riferimenti alle guerre in nome di un credo religioso, alle distruzioni e stragi che queste causano, al fanatismo intollerante che ottenebra le menti rendendole schiave e prive di libero arbitrio. Argomenti corroborati da alcune citazioni delle Scritture seminate qua e là nei meandri di una sceneggiatura che fa dei dialoghi la sua prima preoccupazione (e il che, per un film di pura evasione, è già di per sè un pregio).
Anche in questo film, Twohy conferma le sue doti di direttore mai scontato e sempre significativo. Le sue inquadrature rimarcano le situazioni con l'uso frequente dei primi piani e con angolazioni che calamitano l'attenzione dello spettatore senza annoiarlo. Il dettaglio di una lacrima o la sfumatura di un ghigno malcelato, sottolineano psicologie ed accentuano sensazioni. Sullo sfondo una fotografia satura, quasi piatta, a dar maggior risalto ai personaggi ed alle loro emozioni.
Abbiamo però un sospetto: che Twohy e compagni abbiano realizzato l'opera con la mente già rivolta ad episodi futuri. Una sensazione che infastidisce la visione di un buon film.

Daniele Sesti

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