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40 anni vergine
Obiettivo primario di tante commedie statunitensi degli anni '70 e '80 era senz'altro il sesso, o meglio il superamento della fatidica prima volta, quella prova d'iniziazione costituita dalla perdita della verginità. La perdita di questo ingombrante fardello permetteva al teen-ager americano di essere sdoganato anche socialmente rendendolo un uomo adulto agli occhi di amici e conoscenti. Tale principio in fondo ha fatto la fortuna di un certo, rispettabile, cinema di genere.
40 anni vergine, cerca di ipotizzare cosa accadrebbe ad un uomo che per varie ragioni non sia stato in grado di superare quel fatidico "rito di passaggio", e che si ritrovi a 40 anni senza avere avuto esperienze sessuali. Andy (Steve Carell) non corrisponde perfettamente al profilo del nerd, l'eterno secchione fisicamente non attraente e appassionato di computer, anzi in realtà non sappiamo nulla della sua educazione. Però i suoi hobby lo rendono inevitabilmente "nerdish": è solitario, appassionato di videogiochi, dipinge soldatini e colleziona da tempo immemorabile giocattoli che non sono mai stati tirati fuori dalla scatola (perderebbero di valore!). Inoltre, ciliegina sulla torta, lavora in un negozio di alta tecnologia, pallino del nerd ed ossessione tipicamente maschile. Andy non è brutto, ed anzi ha un curioso aspetto da eterno bravo ragazzo che può ricordare un Griffin Dunne un po' imbranato dei primi anni '80. Un giorno i colleghi di Andy scoprono il segreto della sua verginità e cercano di fargli superare questo scomodo scoglio. Questo è in effetti lo spunto di 40 anni vergine, attorno al quale vengono sviluppate le disavventure erotiche in cui il protagonista si viene a trovare. Alcune situazioni sono divertenti, molto più spesso volgari o già viste. Il problema della sceneggiatura di Steve Carell e di Judd Apatow, che è anche dietro alla macchina da presa, è che cerca di mantenersi in una via di mezzo tra il paradossale ed il "plausibile" senza mai sbilanciarsi troppo in una direzione precisa. Inoltre il film indugia eccessivamente su molti spunti comici, mettendo a serio rischio il livello d'attenzione dello spettatore in una pellicola di insolita durata per una commedia di genere (ben due ore). È naturalmente prevista una morale alla fine, imperniata sull'importanza dell'amore vero, che riporta anche questa pellicola nei parametri delle varie commedie adolescenziali, pur dovendo registrare il ritardo del protagonista. Unica complicazione aggiuntiva.
Solo un dettaglio di questo film lascia perplessi: l'uso della colonna sonora di Hair nel finale del film. L'utilizzo di una canzone come "Let the sunshine in" che concludeva il musical diretto da Forman tende ad associare la perdita della verginità e la critica ad una guerra assurda come quella del Vietnam. Si tratta di messaggi di "speranza" che forse sarebbe meglio tenere ben distinti.
La frase: "Sei come i tuoi pupazzetti: chiuso nella scatola. Esci!"
Mauro Corso
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