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Takeshis'
Un film che ha per titolo il nome stesso del proprio autore, non può che avere una forte impronta biografica. Urge quindi un piccolo riepilogo su chi sia Takeshi Kitano.
Mentre da noi è arrivato solo il Kitano cinematografico, questo poliedrico cinquantacinquenne di Tokyo è da decenni una delle star televisive più importanti del Sol Levante. Presentatore, cabarettista, e all'occorrenza anche cantante, iniziò la carriera in un duo comico chiamato "The two beats" (I due sconfitti). Sciolta la collaborazione, Kitano ha continuato a firmarsi con lo pseudonimo di Beat Takeshi in tutti i lavori a cui partecipa tranne quando si mette dietro la macchina da presa.
Fatte le dovute premesse, ecco che comincia a diventare intuibile ciò che sta alla base di "Takeshis'", un film sul presunto dualismo tra il Kitano attore e star televisiva, e il Kitano regista autore di lavori come Dolls, Brother e Zatoichi.
Kitano le presenta come due persone differenti. Uno, autore di successo che vive negli agi di una ricchezza consolidata, l'altro, invece, attore mancato che continua ad essere rifiutato a tutti i provini.
L'attenzione si focalizza più sul secondo. Un uomo timido, silenzioso, continuamente vessato da chiunque lo incontri, ma che sogna di ribellarsi. L'occasione gliela darà il fortuito ritrovamento di una pistola…
Un vero viaggio allucinato quello che gli spettatori si troveranno a dover intraprendere una volta spentesi le luci in sala. Kitano non si accontenta di sdoppiarsi, ma costruisce un vero e proprio gioco di scatole cinesi dove è impossibile razionalizzare. Quando si pensa di essere arrivati ad un punto, ecco che si scopre un nuovo mondo prima celato. Non a caso l'idea originale su cui ha lavorato Kitano si chiamava "Frattale"…
Satirico e violento, profondo e comico, ritroviamo qui quasi una summa dei suoi precedenti lavori (come lui stesso ha affermato nell'intervista rilasciata qui al Festival di Venezia "Spero con questo di aver finito di avvitare una vite e poterne cominciare un'altra").Come in Zatoichi riaffiorano le radici del teatro giapponese dove tutto è finzione, a partire dai personaggi (gli attori che si presentano ai provini di un film, fanno nella realtà i personaggi che dovrebbero interpretare) per finire alle scenografie smaccatamente false (dopo aver mostrato durante il film come lo sfondo dietro una casa al mare sia un effetto digitale, ecco che l'epilogo della pellicola si svolge proprio su una spiaggia "immaginaria"). Le pallottole o non bucano i vestiti o aprono squarci degni delle cascate del Niagara. I morti parlano, i vivi stanno in silenzio.
C'è chi ha provato durante la conferenza stampa del Festival di Venezia dove il film è in concorso (Kitano in Laguna ha già vinto un Leone d'oro ed uno d'argento) a leggere nell'estrema violenza del film una satira sulla situazione sociale e culturale dell'occidente. La realtà dei fatti (a detta dello stesso Kitano) è molto più semplice. Il suo film vuole essere puro "entertainment", lanciarsi in improbabili interpretazioni ne tradirebbe lo spirito e la leggerezza.
La frase: "Non so come sono arrivata fin qui"
Andrea D'Addio
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