Steve Jobs
Dal cinque ottobre 2011, data della sua morte, è iniziato per Steve Jobs un immediato processo di santificazione, per molti versi giustificato, ma alla lunga stucchevole per il suo essere incondizionato e onnicomprensivo. Quello che ci si aspetta allora da un bel film su di lui è la capacità di mostrare l’uomo oltre il mito, le debolezze, l’arroganza, le naturali imperfezioni di un essere umano che in quanto tale non poteva non averne. In questo senso, “Steve Jobs” è un capolavoro.
L’idea fondamentale e fondativa del film è quella di «fare un quadro, non una foto» del personaggio, e cioè il «dovere», da parte dello sceneggiatore Aaron Sorkin, «di essere soggettivo, perché faccio arte» al contrario dell’autore del libro biografico dal quale è tratto il soggetto che «aveva l’obbligo di essere oggettivo» (Sorkin). Tutto questo suffragato da un regista, Danny Boyle, che vuole specificare che quanto si vede sullo schermo sono sì «idee che vengono chiaramente dalla vita reale» ma anche, e soprattutto che «il film è un’astrazione... questa non è vita: è la versione amplificata della vita vera».
Tolto dunque il fardello della mera somiglianza che avrebbe potuto tendere pericolosamente all’imitazione, il film si sviluppa in tre atti che descrivono i quaranta minuti antecedenti a tre importanti lanci: quello del Macintosh nel 1984; del NeXTcube nel 1988 e dell’iMac nel 1998.
Tutto il film è ambientato dietro le quinte dei teatri delle presentazioni: spazi interni dunque, ma non chiusi, dentro i quali i personaggi si muovono liberamente e tessono, attraverso i dialoghi, le varie trame che compongono la storia. I dialoghi, appunto, sono la vera forza di questo film. Perché in un mare di eccellenza e minuziosità, dalle interpretazioni alla fotografia passando per la regia, la sceneggiatura di Aaron Sorkin (già premio Oscar con The Social Network - e fortemente indiziato con questa a fare il bis -) è un’opera di memorabile bellezza che spicca oltre ogni cosa. I ritmi sono serrati, la forza con la quale emergono i tratti umani dei personaggi è prorompente, ma soprattutto i dialoghi sono di una qualità e di una sottigliezza da grande cinema, un capolavoro assoluto, senza se e senza ma.
Il film – cosa rarissima - è stato girato in sequenza, e con pause di almeno due settimane tra un blocco e l’altro per dare la possibilità agli attori di provare e riprovare il difficile copione, e poter così entrare al meglio nello stato emotivo del personaggio, espediente che ha dato in pieno i suoi frutti. Grazie anche a un Michael Fassbender e una Kate Winslet in evidente stato di grazia (ma quand’è che non lo sono?).
Il primo ha acquisito una padronanza del personaggio tale (a dispetto, o forse forte della sopracitata assenza di somiglianza) da far dichiarare a Steve Wozniak di avere la sensazione, guardandolo recitare, di assistere al vero Steve Jobs; la seconda, proprio come deve aver fatto la vera Joanna Hoffman, ha saputo mantenersi defilata pur conservando sempre ed incredibilmente stretto tra le mani il timone della scena. Due prove attoriali vicendevolmente funzionali e complementari, un impeccabile gioco di squadra – con anche Seth Rogen e Jeff Daniels - esaltato da due solisti eccezionali.
La figura che ne esce è di un uomo scostante, arrogante e in difficoltà nei rapporti umani, ma anche una personalità enorme e magnetica, un genio visionario che ha avuto la forza di seguire il suo enorme sogno talmente in fondo da vederlo realizzato, e il fatto che questa recensione sia stata scritta con un MacBook ne è la riprova.
La frase:
"La gente non sa quello che vuole finché non glielo mostri".
a cura di Alessio Altieri
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