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03 Settembre 2008 - Conferenza stampa
"La terra degli uomini rossi - Birdwatchers"
Intervista al regista e al cast.
di Andrea Gerolamo D'Addio
A Venezia, il giorno dopo la proiezione stampa di Birdwatchers, abbiamo incontrato il regista Marco Bechis e, successivamente, uno dei suoi protagonisti, Claudio Santamaria
A Marco Bechis, questo è un film sulla tenace volontà di raggiungere un obiettivo in cui si crede fermamente. Nella sua vita, per cosa si è battuto con analoga determinazione?
Marco Bechis: Per fare questo film. Trovare finanziamenti per un lavoro fatto in Brasile con indios protagonisti e una lingua che non è la nostra, è stata una delle più grandi lotte che abbia mai combattuto. E' così comunque per qualsiasi regista, ogni suo film è una conquista.
Cosa ha trovato negli Indios che non si trova da noi?
Marco Bechis: Loro sono una comunità che tende a guardare fuori, sono espansivi. Noi invece ci chiudiamo sempre più. In un confronto, noi siamo destinati a perdere nel lungo periodo. Il fuori per noi è pericolo mentre per loro è opportunità.
Il film è teso anche ad una distribuzione internazionale?
Marco Bechis: Si, ed infatti uscirà a novembre in Brasile. Proprio loro mi hanno detto che un film del genere non era mai stato realizzato. A volte serve uno sguardo esterno per guardarsi dentro.
E se dovesse parlare di Italia, su cosa si soffermerebbe?
Marco Bechis: Non saprei dire il soggetto, ma sicuramente la sensazione: la decadenza del livello culturale di guardia.
A Santamaria, come ti sei preparato al tuo personaggio?
Claudio Santamaria: E' stato per me importante conoscere la quotidianità delle persone che avrei dovuto impersonare. Sono partito tre settimane prima dell'inizio delle riprese e ho cominciato a lavorare in incognito in una fazenda. Sapevano che avrei dovuto fare un film ma non sapevano che quello sarebbe stato il mio ruolo, impersonare loro e così credevano che fossi lì in vacanza, che lavorassi per svago accanto a loro.
Com'è stato il lavoro con gli indios?
Claudio Santamaria: Ho trovato dei veri e propri attori, persone preparate come lo sono quelle che normalmente incontro nei laboratori di recitazione che sono solito frequentare. Anche se non erano mai stati al cinema prima di oggi, si muovevano sul set senza alcun indugio rendendo tutto il lavoro per me molto semplice.
Cosa sapevi della tragedia degli indios prima che Marco Bechis ti chiamasse per il film?
Claudio Santamaria: Assolutamente nulla. È stato Marco che me ne ha parlato per primo. Sapevo che ci sono molte tribù indigene nel mondo che sono costrette a soffrire, ma non conoscevo il genocidio vissuto dagli indios brasiliani.. Ero stato in Sudamerica a girare un film molti anni fa e sapevo degli indios dell'Argentina e del Cile che si erano estinti o quasi.
Come ti sei preparato per la parte?
Claudio Santamaria: La prima cosa che per me era importante era quella di conoscere la vita quotidiana di questa persona. Sono arrivato in Mato Grosso e ho lavorato in una Fazenda in incognito. Sapevano che giravamo un film, ma non sapevano su cosa era incentrato… non credo che l'avrebbero presa bene. Ho lavorato per qualche giorno lì e ho notato che nemmeno quei lavoratori vivono una condizione agiata. Sono sottopagati. Vedevo il personaggio come un emarginato, non allo stesso livello degli indios, ma era quasi come se non ci fosse alcuna recinzione tra loro. Come succede con i veri spaventapasseri, i passeri alla fine si abituano e non hanno più paura di lui.
Il lavoro sul set con gli indios…
Claudio Santamaria: Sono dei veri attori. Avevano già iniziato a fare questo laboratorio di recitazione quando sono arrivato lì. Mi sono messo a lavorare con loro, lavorare sul corpo, sullo spazio scenico, sulla voce e l'improvvisazione. Il primo approccio tra di noi è stato uguale a quello che ho con altri attori... che poi avessero meno esperienza cinematografica di me, non cambiava nulla!
Come si è avvicinato a questa comunità?
Claudio Santamaria: Mio zio è un contadino della basilicata, mia madre viene da lì. L'Italia è una società discendente da contadini così come lo sono gli Indios. Con loro ho quindi ritrovato sensazioni e modi di pensare che sono propri della mia infanzia e che risiedono un po' in tutti noi. All'inizio comunque sul set è stato lacerante vedere dove stavano: le riserve. Poi ho conosciuto la loro gioia, la voglia di vivere, combattere e riscattarsi.
Hai appena doppiato Bruce Wayne nel secondo Batman di Nolan. Che rapporto hai con il doppiaggio?
Claudio Santamaria: È un lavoro che faccio raramente. Mi prendo tutte le colpe che mi sono state date a proposito del doppiaggio di Batman- Il cavaliere oscuro e Begins, anche se non tutte mi convincono. L'ho fatto con un po' di incertezza. Quelli della distribuzione non volevano un doppiaggio classico e non riuscivano a trovare una voce adatta. Quando ho fatto il provino, non credevo che sarei stato preso. Quello del doppiaggio è un lavoro molto complesso, però ho avuto anche molte critiche. Siamo abituati ad un doppiaggio piuttosto rassicurante e non vogliamo che qualcuno ci faccia uscire da quel binari. Era comunque più facile doppiare Bruce Wayne anziché Batman. Munich è stata una invece una bella esperienza".
Cosa ti hanno trasmesso gli indios?
Claudio Santamaria: La grande voglia che hanno di imparare, sempre. È cresciuta in me la convinzione che c'è un altro modo di vivere il pianeta. Loro lo vivono e lo percepiscono in maniera diversa, hanno un rispetto profondo per l'altro ed una spiccata curiosità per quello che li circonda. E sanno anche leggere i segni che vengono dalla natura.
Tu sei molto popolare tra il pubblico giovanile. Scegli questi ruoli anche per arrivare in qualche modo a parlare col tuo pubblico?
Claudio Santamaria: Per un periodo ho considerato il lavoro dell'attore in un certo senso inutile. Poi mi sono ricreduto, ho scoperto che è un ottimo veicolo per far passare la conoscenza da una parte all'altra. Il mio primo impulso nell'accettare il ruolo era dato dal fatto che volevo tanto lavorare con Bechis, mi ero già offerto per un ruolo in Figli - Hijos. E poi si girava in Mato Grosso e sarei stato travolto da una cultura a me estranea… umanamente sono sempre attratto dalle avventure.
Analogamente agli indios, anche se in forma più leggera, ti è mai capitato di lottare per conquistare qualcosa?
Claudio Santamaria: Ho lottato facendo film e rifiutando i ruoli. La carriera di un attore si costruisce cercando di non fare film brutti. Io ci ho provato il più possibile.
Recentemente ti abbiamo anche visto in Casino Royale. Ritorneresti a lavorare a Hollywood?
Claudio Santamaria: La vera cosa in più è potere girare più volte una scena. Ti rendi conto che non puoi fallire, hai molto tempo per le prove e per girare. Non mi trasferirei ad Hollywood a meno che non venissi chiamato esplicitamente, sono piuttosto pigro e non ho voglia di andare lì e cercarmi i contatti.
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